Laureata, specializzata all'estero, assunta a Milano nel gran mondo del design. Storia di "una privilegiata"
Credevo di avere dei diritti
Mi sono laureata con il massimo dei voti. Ho cominciato a lavorare prima ancora di terminare gli studi. Dopo qualche anno, ho deciso di partire. Di andare all'estero per specializzarmi.
Poco dopo, si presentò un'occasione. A Milano, un'azienda di servizi operante nel mondo del design cercava una nuova responsabile per una struttura di grande pregio, dal ricco calendario di eventi culturali e dall'alto potenziale nell'offerta di servizi a privati e imprese.
La proposta era decisamente interessante. Un'assunzione a tempo indeterminato con tanto di tredicesima e quattordicesima, contributi, Tfr, diritti sindacali. Per chiunque faccia parte della mia generazione e abbia il desiderio di rimanere in Italia, si trattava di un'occasione assolutamente straordinaria.
Accettai. Mi trasferii a Milano, piena di entusiasmo. Sentendomi una privilegiata.
Il ruolo era di responsabilità. In pochi mesi mi guadagnai la fiducia dei miei responsabili. Avevo costituito un nuovo team di lavoro. La struttura cominciava a cambiare aspetto. Si presentavano nuove occasioni di business. Erano stati acquisiti nuovi spazi. L'andamento semestrale delle entrate era in forte crescita. Il perenne deficit di questa piccola realtà cominciava una lenta inversione di rotta. Io lavoravo fra le dieci e le quindici ore al giorno, dal lunedì al venerdì, con il sorriso sulle labbra. Una media di sessanta ore a settimana. Nessun miracolo, solo un enorme impegno.
Uno degli episodi più significativi non tardò a verificarsi. Sulla mia famiglia si abbatté una disgrazia ed io divenni improvvisamente assetata di tempo libero. Nelle buste paga non vi era traccia della retribuzione dei moltissimi straordinari. Ebbi, quindi, quello che allora considerai un colpo di genio. Andai a parlare con il mio responsabile proponendogli uno scambio. Rinunciavo al pagamento degli straordinari, in cambio del recupero forfettario delle ore. Una prassi in molte aziende. Assistetti a una scena estremamente educativa. Venni attaccata in maniera molto aggressiva. Mi sentii dire che non ero stata assunta dal comune di Milano, dove notoriamente ai dipendenti cade la penna dalla mano al termine delle otto ore lavorative (sempre ammesso che facciano qualcosa), ma che ci si aspettava che io "credessi nel progetto" e fossi dedita al mio lavoro, senza essere così meschina da contare le ore di straordinario.
Nel mese di aprile a Milano hanno luogo diversi eventi di portata nazionale e internazionale nell'ambito dell'arredamento. Per noi significava essere presenti ininterrottamente sul posto di lavoro per circa quindici ore al giorno, per venti giorni consecutivi, sabati e domeniche comprese. Senza naturalmente alcuna retribuzione aggiuntiva. In compenso, però, ci veniva generosamente concesso un giorno di ferie non conteggiato, in occasione del ponte del 1° maggio, o (non e) di quello del 2 giugno.
Ciò che difficilmente riesco a collocare precisamente nel tempo, sono i continui episodi di grave maleducazione. Bestemmie reiterate durante le riunioni, insulti dai più leggeri riferiti alle limitate capacità intellettuali, ai più pesanti riferiti a prestazioni sessuali occasionali a pagamento.
Le giovani donne costituivano la stragrande maggioranza della forza lavoro. Inoltre, si sa, per chi lavora nel mondo della comunicazione e degli eventi la bella presenza aiuta. Aiuta le relazioni esterne, ma anche quelle all'interno della stessa azienda. Le allusioni sessuali erano all'ordine del giorno: battute, apprezzamenti pesanti, volgarità a ruota libera. E chi provava a mettere un freno, veniva tacciata di scarso senso dell'umorismo e di una certa gravità d'animo. Per tanto, era da ritenersi normale che i tre soci ti interrogassero sulla tua biancheria intima, ti proponessero di sederti sulle loro ginocchia, alludessero al tuo ruolo nei loro sogni, si sbizzarrissero con i doppi sensi, commentassero il tuo abbigliamento e tentassero varie forme di seduzione non sempre raffinate.
Ma non è tutto. Un episodio fra tanti mi è particolarmente caro. Venne convocata una delle tante riunioni interne. Il tema era la pianificazione di un certo evento all'estero. Ero coinvolta in prima persona. Nel corso dell'incontro mi venne chiesto di presentare la documentazione preliminare. Mi misi la matita che avevo in mano fra le labbra, in modo tale da avere le mani libere per poter sfogliare alcuni documenti e porgerli ai presenti. Devo ammettere che non si trattò di un gesto di grande finezza. Del tutto istintivo, involontario, di fronte a persone con le quali lavoravo da molti mesi gomito a gomito. Proprio in quel momento mi venne rivolta una domanda. Mani occupate, matita fra le labbra. Emisi un brevissimo mugolio, per dare un segno di presenza e darmi il tempo di estrarre i documenti, portare la mano alla bocca, posare la matita ed essere nuovamente in grado di parlare. Tutto in pochi secondi. Venni preceduta dalla mano del mio responsabile che strappandomi la matita di bocca cominciò a urlare che non era in grado di capire cosa stavo cercando di dire. Non partecipai al resto della riunione e la mia reazione mi mise al riparo da ulteriori soprusi fino alle dimissioni. Da quel momento, però, fui considerata una persona capace di eccessi, permalosa, fiscale e rompiscatole. Un caratteraccio.
Fin dall'inizio, i problemi finanziari non mancarono. Gli stipendi venivano pagati con perenne ritardo. I fornitori non venivano quasi mai saldati, se non tramite vie legali. Lavorare era molto difficile. Inizialmente, convinta della buona fede dei miei datori di lavoro, combattevo per riconquistare la fiducia dei fornitori, affinché gli ordini venissero concessi a condizioni economiche vantaggiose, nonostante le numerose inadempienze. Con il passare del tempo, quella che credevo essere una fase divenne la normalità delle cose, si cronicizzò e cominciò a peggiorare. I vecchi fornitori non accettavano più. E la caccia ai nuovi era sempre più complicata. Milano è una città molto piccola, tutti si conoscono, la gente parla.
Le raccomandate degli studi legali si moltiplicavano, le viste dell'ufficiale giudiziario preposto al pignoramento si intensificavano, i compagni di lavoro che non resistevano erano sempre di più. In due anni e mezzo ho detto addio ad almeno una quarantina di colleghi in un'azienda che conta circa trenta collaboratori in totale. In brevissimo tempo ero diventata una delle più anziane.
A causa del mio ruolo ero sempre a contatto con fornitori e clienti. E sono sempre stata considerata una brava persona e, quindi, soggetto ideale per confidenze e condivisione di informazioni riservate. La mole di dati in mio possesso cresceva a dismisura. Non avevo più il coraggio di contattare nuovi e vecchi fornitori. Mi vergognavo. Mi vergognavo di offrire loro lavori che sapevo non sarebbero mai stati pagati. Non volevo più sentirmi dire che avrebbero fatto uno strappo perchè si fidavano di me. Sapevo che non avrei potuto mantenere la parola.
Poi smisero di pagare gli stipendi. Senza una spiegazione. Senza il coraggio di informarci, di darci la possibilità di scegliere. Nell'agosto 2009 andammo tutti in ferie con lo stipendio di giugno. A settembre, tornammo senza aver ricevuto ulteriori pagamenti. Le domande venivano accolte con freddezza e irritazione. L'attacco l'unica risposta. Bisognava "credere nel progetto" e "non potevamo pretendere miracoli". Come se lavorare a quei ritmi senza retribuzione non fosse una prova sufficiente. Alla fine di ottobre ci saldarono il mese di luglio, agosto e settembre. Poi la situazione cominciò a precipitare. L'ultimo pagamento lo ricevemmo alla fine di gennaio: si trattava dello stipendio di novembre. Poi più nulla.
Sono andata avanti fino ad aprile 2010. Forse proprio perchè "credevo nel progetto", più che nelle persone che lo gestivano. Ci credevo più di quanto potessero sospettare.
La situazione divenne drammatica. Eravamo tutti esasperati dalla mole di lavoro accresciuta dalle continue defezioni, dall'assenza di informazioni, dalle rate del mutuo, dall'umiliazione di dover ricorrere ai nostri genitori, dalle esigenze dei figli, dalle bollette. Tutto ciò scorreva nella normalità più completa. La sete e il bisogno di informazioni venivano accolte con rabbia, arroganza ed esasperazione. Come se lavorare senza retribuzione fosse normale. Come se noi dipendenti fossimo soci, tenuti a condividere il rischio di impresa. Come se fosse inconcepibile che credessimo di avere veramente dei diritti. Dovevamo sentirci fortunati che non ci avessero messo in mezzo a una strada. Le minacce sostituivano il più banale dei ringraziamenti per essere lì, nonostante tutto. Poi vennero i controlli più severi sulla produttività e i conseguenti licenziamenti in tronco. Come se l'impossibilità di pagare gli stipendi da mesi fosse imputabile a un improvviso calo della produttività. La paura si fece largo. L'ombra della crisi paralizzò i più valenti. La fatidica domanda: "e poi che faccio?" ci condannava ad uno stato di paralisi. Subivamo, sempre più arrabbiati, ma sempre più incapaci di reagire.
Di fronte alle numerose dimissioni e ai licenziamenti, vennero fatte delle nuove assunzioni. Numerose nuove assunzioni. Persone portate via da solidi posti di lavoro, in nome di retribuzioni considerevoli e di promesse che non sarebbero state mantenute. Si trattava quasi sempre di donne con famiglia. Ricordo un pranzo come fosse ieri. Ero seduta con alcuni colleghi e mi venne indicata una neoassunta, molto qualificata. Mi raccontarono che veniva da un'importante agenzia di consulenza. Due figli. Un marito disoccupato.
Ci vuole stomaco.
Me ne sono andata poco dopo. Mi riveniva in mente lo slogan pacifista: "not in my name". Quando il quadro si è completato, la consapevolezza è diventata piena. Mi sentivo complice di un sistema malato di cui ero strumento, che si perpetrava anche grazie alla mia rassegnazione.
Io, però, ho potuto licenziarmi perchè ero e sono in una condizione privilegiata. Come assunta a tempo indeterminato, mi aspettava il sussidio di disoccupazione. E poi, una famiglia solida nei valori e nelle finanze. Moltissimi erano e sono privi di sicurezze, senza reti di protezione, schiavi dell'assenza di un'alternativa, senza una famiglia alle spalle e attaccati ad un filo di speranza. "Magari l'azienda si risolleva, magari domani ci pagano uno stipendio arretrato, magari arriva un'altra offerta. Se mi licenzio senza un'alternativa come faccio? C'è la crisi."
Intanto il tempo passa.