Politiche

Il libro di Sabrina Marchetti racconta il legame tra il passato coloniale italiano e il presente, la continuità tra la colonia e la casa del colonizzatore, nelle storie di vita delle donne eritree che negli anni '60 e '70 emigrarono in Italia. Un rimosso del passato recente che ci aiuta a comprendere il presente

Le ragazze di Asmara
nell'Italia colf-coloniale

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 Il caso delle donne provenienti da una ex colonia che vanno a lavorare nel paese degli ex colonizzatori [è] qualcosa di unico, o almeno di molto diverso, rispetto al caso di altri gruppi.

Parte da questo assunto Sabrina Marchetti nel suo libro “Le ragazze di Asmara. Lavoro domestico e migrazione postcoloniale”, applicandolo al caso esemplare delle donne eritree che negli anni ’60 e ’70 giunsero in Italia. Una storia poco conosciuta dagli italiani – almeno quanto il proprio passato coloniale nel Corno d’Africa – che il libro, attraverso i racconti e le voci delle protagoniste, recupera e rilegge all’interno della dimensione, ben più ampia, della globalizzazione del lavoro domestico e di cura, o meglio della delega quasi esclusiva che le società europee hanno fatto di questo lavoro alle donne straniere di origine immigrata.

Nel caso della migrazione eritrea in Italia – e più in generale delle migrazioni dai paesi colonizzati ai paesi colonizzatori – l’applicazione di una prospettiva postcoloniale al regime culturale ed economico che regola l’inserimento dei migranti nelle società di emigrazione, permette di rintracciare una netta linea di continuità tra la colonizzazione e la globalizzazione, tra il posto riservato ai colonizzati nei loro paesi durante i regimi coloniali e il posto che si ritrovano ad occupare nei paesi europei quando vi arrivano da immigrati.

Il libro rilegge l’immigrazione eritrea e le condizioni di vita – nonché i vissuti – delle immigrate eritree in Italia, in diretta continuità con il regime coloniale italiano e con la condizione di “domesticità” già in quel contesto riservata loro. Le ragazze che negli anni ’60 e ’70 da Asmara raggiunsero Roma, scelsero l’Italia e furono scelte dagli italiani proprio in virtù della precedente socializzazione alla cultura italiana e della forte prossimità sperimentata con gli italiani in Eritrea: durante la colonizzazione attuata dal Regno d’Italia sul finire dell’Ottocento; durante il fascismo, che tra gli anni ’20 e ‘30 vi attuò una politica di segregazione lungo linee “razziali” e sessuali; infine, durante il periodo del neocolonialismo, che tra il 1945 e il 1975 vide moltiplicarsi le occasioni di scambio e contaminazione tra la cultura italiana e la cultura eritrea, sia nei luoghi pubblici che nelle abitazioni private, ma che non per questo modificò l’ordine gerarchico vigente tra le due culture. Sempre, in ciascuna fase, alle donne eritree fu assegnato il compito di occuparsi dei servizi domestici destinati alla popolazione italiana, in base a una divisione del lavoro fondata sulle differenze di genere e di “razza”. Parallelamente, l’istituto del “madamato” inaugurato dal colonialismo italiano in Eritrea sul finire dell’Ottocento, ossia il concubinato tra uomini italiani e donne eritree (che il fascismo nel 1937, con l’introduzione delle leggi razziali, proibì e perseguì penalmente, causando il disconoscimento dei figli nati da quelle relazioni e l’abbandono di molte donne), generò anche rapporti di parentela che contribuirono ad accrescere le occasioni di familiarità e vicinanza tra gli eritrei e gli italiani.  

È in virtù di questo passato che, nel momento in cui in Italia iniziò a svilupparsi una domanda di lavoro domestico retribuito, non solo l’Italia considerò quasi naturale richiamare forza lavoro dall’Eritrea piuttosto che da altri paesi, ma le stesse donne eritree si pensarono come le più adatte a svolgere quel lavoro. La convinzione di essere le più “brave” nell’interpretare i desideri e i gusti degli italiani, di possedere cioè quel “capitale culturale”, al contempo “femminile” e “postcoloniale”, necessario per svolgere bene e meglio di altre il lavoro domestico e di cura in Italia, ritorna frequentemente nei racconti delle intervistate, come una sorta di tattica narrativa utile a conferire maggiore dignità e valore al ruolo ricoperto nelle famiglie italiane. Un capitale, dunque, che al momento della migrazione hanno saputo strategicamente sfruttare per essere scelte, che nella ricostruzione della propria storia permette loro di elaborarne una valutazione tutto sommato positiva, ma che al momento dell’arrivo in Italia hanno scoperto non essere riconosciuto dagli italiani. In molte, ricordano la delusione e il sentimento di disambientamento provato quando, giunte in Italia piene di aspettative, si sono dovute confrontare con l’indifferenza da parte degli italiani, il non riconoscimento degli studi svolti in Eritrea – spesso proprio presso scuole italiane –, in alcuni casi addirittura la vergogna e l’imbarazzo da parte di quegli stessi italiani con cui in Eritrea avevano condiviso tanti momenti di vita in comune. Di fatto, quello che scoprono ma non dicono, è che il loro trasferimento dall’Eritrea all’Italia non è che il passaggio da una colonia fuori confine a una nuova colonia interna, da una “periferia coloniale” a una “metropoli postcoloniale”. Persino lo spazio domestico e l’architettura delle case in cui le donne eritree vanno a vivere e a lavorare, sembrano essere stati pensati per riprodurre continuamente il confine tra le famiglie italiane e le domestiche eritree e, per estensione, tra bianchi e neri, tra colonizzatori e colonizzati.

Quel capitale culturale acquisito dalle donne durante il colonialismo e da esse rivendicato come valore aggiunto con cui candidarsi all’ingresso e alla vita in Italia, è stato anche la loro gabbia, relegandole per anni allo stesso lavoro e allo stesso posto nella scala sociale. I profili delle protagoniste del libro – oggi ormai anziane – descrivono donne che lavorano ancora adesso come domestiche (o che hanno smesso di farlo da poco) e che nella gran parte dei casi non sono riuscite a costruire – né in Italia né in Eritrea – una propria famiglia e una propria autonomia abitativa.

La loro storia è tutto questo, ma è soprattutto la risultante dell’intreccio di almeno tre condizioni: quella di donne, quella di migranti postcoloniali, quella di soggetti subalterni. Il merito del libro è di aver attinto a un panorama teorico-metodologico estremamente vasto ed interdisciplinare – che va dalla sociologia agli studi di genere, dalla filosofia agli studi postcoloniali – e di averlo poi applicato a un caso concreto. La storia dell’emigrazione femminile eritrea in Italia, così, non viene solo ricostruita ma reinterpretata alla luce di almeno tre imprescindibili chiavi di lettura: il razzismo, il colonialismo, il patriarcato. Si riesce così a comprendere quella specifica posizione che le donne migranti si trovano a occupare nei paesi di immigrazione, non solo rispetto ai nativi, ma anche rispetto agli stessi connazionali maschi. La loro specificità sta nel portare su di sé e dentro di sé non soltanto i segni della “linea del colore”, ma anche quelli della “linea del genere” e della “linea della classe”, un intreccio così potente e fitto da aver generato, nel caso delle donne eritree, una vera e propria triangolatura nella quale sono rimaste imbrigliate.

Nel frattempo la linea del colore ha esteso il proprio raggio di azione, opera anche nei confronti di donne e migranti dell’Europa bianca e l’esperienza migratoria coinvolge anche paesi di partenza non necessariamente legati ai paesi di destinazione da un esplicito passato di dominazione coloniale. Il lavoro di Sabrina Marchetti, allora, può forse servire non solo a recuperare una storia nazionale rimossa e a rileggerla dal punto di vista dei soggetti subalterni, ma a rintracciare nel passato possibili elementi di comprensione del presente. Il primo passo è stato compiuto pienamente dall’autrice, il secondo resta invece da compiere, a partire dalla consapevolezza che la dimensione postcoloniale, seppure necessaria, non è sufficiente quando si guardi ad altre migrazioni femminili, sia del passato che del presente, che pur non provenendo da una storia di colonizzazione sono comunque accomunate dall’inserimento quasi esclusivo nell’area dei servizi (domestici, di cura, sessuali). Se anche le attuali immigrate bianche ed europee faticano a trovare opzioni lavorative e sociali alternative all’area della “domesticità”, resta una domanda non risolta dal libro ma al contempo offerta alla riflessione comune. Quale sia la combinazione di cause e processi per cui, a distanza di oltre quarant’anni dall’arrivo delle “ragazze di Asmara” in Italia, il posto riservato alle donne immigrate sia ancora la casa e la loro posizione quella della subalternità.

Sabrina Marchetti, “Le ragazze di Asmara. Lavoro domestico e migrazione postcoloniale”, Ediesse, 2001, pp. 190, 12,00 Euro