Dialoghi in traduzione. Il nuovo dossier di Afriche e Orienti “I movimenti delle donne in Nord Africa e Medio Oriente: percorsi e generazioni femministe a confronto”, letto per noi da Lucia Turco
I movimenti delle donne in
Nord Africa e Medio Oriente
Il nuovo dossier di Afriche e Orienti, curato da Renata Pepicelli e Anna Vanzan, analizza il panorama eterogeneo dei femminismi che agiscono l’area nord africana e medio-orientale. Movimenti che agiscono lo spazio e si intrecciano con gli accadimenti nazionali e regionali. Tra i saggi che compongono il volume si possono tracciare delle linee comuni che rimandano a immagini speculari e in dialogo.
Il primo filo rosso riguarda il ruolo dei movimenti femministi, nei diversi contesti trattati, in parallelo alle vicende politiche nazionali; alcune autrici preferiscono condurre delle narrazioni diacroniche, come Renata Pepicelli la quale narra quattro generazioni di donne in quattro precise fasi storiche, dalle lotte per l’indipendenza del Marocco fino al Movimento 20 febbraio; Anna Vanzan ricopre un interno periodo che va dagli anni precedenti alla Rivoluzione costituzionale del 1905-1906 in Iran sino al primo decennio del nuovo secolo; anche Maryam Ben Salem inserisce il movimento delle donne nel più ampio contesto militante tunisino, fortemente legato al contesto politico di Bourguiba prima, e di Ben Ali, poi; uno sguardo più sincronico si può invece rintracciare nel saggio di Mulki Al-Sharmani che, tracciando la genealogia dei femminismi islamici nel contesto egiziano, dedica l’ultima parte del suo saggio alle vicende post-rivoluzione; così anche nel saggio di Leyla Şimşek-Rathke che fornisce un’importante lettura dei movimenti delle donne all’interno delle proteste di Gezi Park, intrecciandola alle politiche stigmatizzanti e criminalizzanti di Erdoğan.
Femminismi nelle loro relazioni con il potere, dunque: storie nella e contro la Storia.
Il secondo filo rosso rintracciabile sottolinea il dialogo, armonioso o conflittuale, tra i differenti femminismi, in particolar modo i due universi di femminismo secolare e femminismo islamico. Pepicelli già mette in guardia da un ortodosso uso terminologico, poiché la parola non è che il segno di un problema irrisolto, parafrasando Adorno; ma è principalmente la problematizzazione del binarismo a essere costante: le autrici riconoscono come la costruzione di categorie duali non soddisfi e sia, anzi, funzionale al mantenimento del discorso dominante. Contro tali manicheismi, Vanzan racconta la creazione di un nuovo linguaggio politico "disseminato da concetti antichi […] pronunciati con espressioni nuove"; un superamento, dunque, di cui però alle volte si subiscono i colpi.
Uno sguardo specifico è dedicato ai femminismi islamici. Mulki Al-Sharmani parla di un traslational and national knowledge project. Vanzan ne sottolinea l’identità militante: nasce, infatti, proprio in seno alle stesse donne che ebbero un ruolo importante nella rivoluzione iraniana poiché credevano nel valore della "riconsiderazione dei diritti femminili all’interno di una cornice religiosa", ed è un posizionamento politico di cui Vanzan comunica la potenza a colpi di scritture nelle riviste femministe.
Una delle principali lenti utilizzate è la relazione generazionale con un focus particolare sulla differenza tra i movimenti degli anni ’60 e ’70 e quelli degli ultimi decenni; l’impressione generale è quella di forme di militanza più strutturate e identità definite nei decenni ’60/’70 contro l’attuale e generale fluidità di pratiche e alleanze. Ne è un esempio l’esperienza di Gezi dove l’incontro generazionale avviene in presenza, all’interno di una generale atmosfera di condivisione di intenti anche tra parti in conflitto. Meravigliosa è l’immagine conclusiva offerta da Leyla Şimşek-Rathke, il fermo immagine di una donna, Fatma, che riconosce nello slogan di piazza delle giovani, una storia femminista che, nonostante le difficoltà, non si è interrotta.
L’importanza di questo volume risiede nella possibilità che ci offre: uno sguardo sull’altra che ci obbliga anzitutto a un posizionamento in quanto donne e femministe occidentali. Il testo, infatti, ha la capacità non soltanto di dialogare con la realtà che narra, ma di mettere la lettrice in una posizione scomoda in cui diviene un’esigenza problematizzare le categorie, anche e soprattutto quelle che le (ci) appartengono. Tra queste, l’occidentalismo è di certo una presenza ingombrante che alimenta la dicotomia donna musulmana/donna occidentale. È proprio tra gli effetti di questo dualismo imposto che si situa la profonda riflessione sul riconoscersi o meno come femministe, come ricorda Renata Pepicelli a proposito del Movimento marocchino del 20 febbraio, "un nuovo spazio politico post-ideologico e post-femminista"; il pericolo di un tale processo può essere messo in evidenza da ciò che è sempre Pepicelli a constatare: l’assenza, all’interno di questi "nuovi spazi di genere", dell’agenda femminista, un’assenza che le attiviste iraniane avevano già sperimentato sulla loro pelle nel passaggio dalla monarchia di Pahlavi alla Repubblica Islamica.
L’interrogativo a questo situarsi coinvolge, poi, le stesse autrici che scelgono di procedere per narrazioni: un lungo corollario di volti di donne, il nome apre alla breve narrazione, e il discorso riprende. La scelta insita nella scrittura contiene in sé la risposta ai quesiti che i contributi pongono: i movimenti delle donne nell’area MENA si posizionano come movimenti femministi? Credo fortemente che la scelta della scrittura delle autrici sottolinei ancora una volta come il partire da sé sia la pratica - di militanza e di scrittura - all’interno della quale riconoscersi e riconoscerci. Un partire da sé che diviene un incontro con l’altra e con la sua narrazione. Come racconta Trinh T. Minh-ha, scrivere è una pratica in cui "il me sparisce mentre io vado e vengo incessantemente" ( Trinth T. Minh-ha, 1989, p 28). È quello che accade alle autrici che incontrano le donne, le interrogano e interrogano le loro pratiche in presenza, in uno spazio del simbolico e del reale: nelle prigioni marocchine degli anni ’70 con Saïda Menebhi e Fatna El Bouih, negli atelier di scrittura di Fatima Mernissi, nei luoghi del WMF Women and Memory Forum in compagnia di Oumaima Abou-Bakr e Hoda El-Saaid, nell’alleanza fluida di Hamgara-ye Zanan, sulle terrazze iraniane urlando proteste o in una tenda a Gezi Park.