Speranze di emancipazione in Afghanistan

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Dopo la guerra fredda, il modo tradizionale di fare guerra è tramontato ed è subentrato, al suo posto, un nuovo modello di conflitto, in cui gli attori in campo hanno mezzi a disposizione e finalità di obiettivi completamente diversi fra loro, in un regime di evidente asimmetria. La diretta conseguenza è che nelle guerre contemporanee sempre più spesso la popolazione civile è direttamente coinvolta nelle dinamiche degli scontri sul campo. In particolare le donne diventano arma strategica e questo vuol dire, nella pratica, che nei loro confronti si verificano efferate violenze. I conflitti sono però al contempo occasione di apertura di inaspettati e nuovi spazi sociali. Caso emblematico è l’Afghanistan, paese in stato di guerra da ormai più di 30 anni, il quale, se da una parte è tristemente famoso per l’oppressione e la forte violazione dei diritti umani subiti soprattutto dalle donne, dall’altra registra un vasto movimento femminile e che lotta attivamente per la parità dei diritti e per l’uguaglianza di genere.

L’Afghanistan, letteralmente la terra dei Pasthun in lingua persiana è il crocevia dell’Asia centrale. Il suo essere la porta naturale di passaggio tra il Medio oriente e il subcontinente indiano ne ha fatto, per secoli, teatro di guerre e  invasioni [1]. Nei primi anni ’90 del secolo scorso, all'indomani della ritirata dell’Unione sovietica dal paese, che ha lasciato l’Afghanistan dilaniato dalla guerra civile e con il conseguente collasso del suo sistema economico e sociale, compaiono sulla scena i talebani che conquistano Kabul nel 1996. Accolti inizialmente con favore, i talebani, letteralmente studenti di religione, incarnavano il ritorno ad una situazione di stabilità e ad un ritorno al “vero Islam”. In realtà i talebani iniziarono ad emettere una serie di editti e restrizioni che toccavano soprattutto il mondo femminile con l’unico fine di rendere invisibile metà della popolazione: alle bambine fu vietato di andare a scuola e alle donne veniva impedito di lavorare, creando così gravi conseguenze economiche per tutta la famiglie la cui sopravvivenza dipendeva anche dal lavoro femminile. Questi editti segnarono ovviamente l’involuzione di ogni processo di emancipazione femminile presente nel Paese, grazie al quale, prima dell’avvento dei Talebani, molte donne afghane lavoravano nel campo dell’istruzione come insegnanti ed educatrici.

Nel 2012 la ricercatrice statunitense Anna Pessala ha svolto un’interessante ricerca sulle donne pasthun in Pakistan e in Afghanistan, prendendo in esame varie aree tematiche relative al loro stile di vita, all'economia e alle loro aspettative [2]. Lo studio ha rilevato che, sebbene in entrambi i paesi le donne non lavorino quasi mai fuori di casa – nel 2012 il 95% delle donne afghane pasthun svolgeva unicamente attività domestiche contro il 91% delle donne Pakistane - il reddito delle donne afghane pasthun è molto inferiore a quello delle  donne che vivono in Pakistan. C'è da notare una profonda differenza tra zone tribali rurali e grandi città; le zone tribali sono ad oggi di fatto ancora sotto il controllo dei talibani, che continuano ad esercitare una forte pressione sulla popolazione, imponendo regole severe e causando una forte discriminazione tra ruoli sociali maschili e femminili.

In Afghanistan proprio a causa della guerra i cambiamenti maggiori hanno riguardato le donne, le quali, con mariti, padri e fratelli impegnati a combattere, si sono ritrovate, giocoforza, a sobbarcarsi il mantenimento della famiglia. Ciò ha permesso, a molte di loro, di apprendere un mestiere, di andare a scuola e di uscire fuori dalle mura domestiche, creando di fatto un cambiamento nella struttura sociale del gruppo di appartenenza. Sono diverse le organizzazione afghane gestite da attiviste locali che promuovono programmi di educazione ed alfabetizzazione. Questo spiega quale sia il dramma di queste donne, divise tra la modernità della globalizzazione (la popolazione dell’Afghanistan possiede un numero elevatissimo di strumenti elettronici quali computer e cellulari) e le regole millenarie del Pasthunwali.

È un errore, quindi, immaginare l'Afghanistan solo come un paese di donne oppresse e silenziose; molte di loro infatti combattono battaglie quotidiane contro le violenze, i soprusi e le brutalità quotidiane. Alcune sono sconosciute, ma altre, invece, sono salite alla ribalta della cronaca per gesti e dimostrazioni che passeranno alla storia. Una di queste è Malalai Joya, attivista afghana trentenne che ha sfidato i Signori della guerra denunciando pubblicamente le loro violenze ed efferatezze. Ad oggi è sfuggita a sei attentati ed è costretta a vivere indossando l’odioso burqa che lei ha sempre combattuto con forza. Malalai, come molte altre donne afghane non ha mai smesso di combattere, nonostante le intimidazioni e le difficoltà e come spiega lei stessa: “A coloro che vogliono far tacere la mia voce io dico: sono pronta , quando e ovunque vogliate colpirmi. Potete uccidere me, ma non potrete mai uccidere il mio spirito”. Dati significativi riguardano poi l’introduzione dei nuovi mezzi di comunicazione (internet e telefoni cellulari) che in futuro potranno portare a cambiamenti profondi in queste società così staticamente legata al passato.

Sia nella fase di pieno svolgimento del conflitto, che di quello post-conflict è determinante l'impegno degli organismi internazionali e delle Ong che hanno il ruolo di aiutare le donne in un percorso di sostegno e formazione che permetta loro di raggiungere un ruolo sociale consapevole e partecipato e di godere pienamente dei loro diritti fondamentali. Per esempio nel 2003 nell’area urbana e periferica di Kabul la Fondazione Pangea Onlus ha avviato il Progetto Jamila. L’intento è quello di rivolgersi alle donne economicamente in difficoltà, ma motivate a voler contribuire ad un miglioramento della loro vita e di quella dei loro familiari. Fondazione Pangea permette alle donne che lo richiedano di avere accesso ad un microcredito con l'obiettivo di avviare un’attività generatrice di reddito e di seguire, allo stesso tempo, un programma formativo di alfabetizzazione. Ad oggi le beneficiarie sono più di 3.000 e grazie a questo progetto molte donne hanno avuto la possibilità di curarsi gratuitamente e di poter mandare i figli a scuola e di riacquistare fiducia in se stesse.

di Barbara Gallo

 
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* Il presente articolo è una sintesi de Il ruolo sociale delle donne nei teatri di crisi. Il caso afghano.

[1] Per approfondimenti: E. Giunchi (a cura di), Afghanistan. Storia e società nel cuore dell’Asia, Carocci, Roma, 2007

[2]Per approfondimenti si veda A. Pessale (a cura di), Perspective on Attidìtudes and Behaviours of Pasthun women in Pakistan and Afghanistan, D3 System, Inc. Virginia, USA, 2012. Lo studio è basato su un serie di interviste (circa 2.000) condotte sul campo nel 2007. Sono state intervistate circa 100 donne pasthun nella FATA, in Pakistan, mentre in Afghanistan le interviste sono state circa 500.