Politiche

Modelli di welfare e conciliazione a confronto. Un libro di Alessandra Fasano analizza i casi di Olanda, Svezia, Francia e Germania, e sulle loro diverse scelte su tre assi cruciali per una nuova condivisone di cura e lavoro: congedi, part-time, servizi

E noi faremo
come la Svezia?

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Part-time, congedi di maternità /paternità /parentali, servizi per l'infanzia. Questi i tre temi su cui Alessandra Fasano focalizza la sua analisi comparata dei sistemi di welfare, nel volume Conciliare cura e lavoro. Politiche e differenze di genere in alcuni paesi europei (Scriptaweb Napoli, 2010). Ne compara la regolazione e il grado di attuazione in quattro paesi europei: Olanda, Svezia, Francia e Germania. La scelta dei paesi privilegia quelli a “capitalismo renano” (Germania e Francia), uno atipico (l’Olanda) e quello più rappresentativo del  modello scandinavo, considerato esemplare in questo campo.

Il libro offre un quadro dettagliato e ricco di sfumature della situazione della conciliazione in questi paesi, sottolineandone specificità spesso offuscate nell’indistinto termine “estero” che accompagna nel discorso pubblico il confronto del nostro Paese con gli altri. Non mancano infatti le specificità nazionali. Per esempio, Francia e Germania, apparentemente molto simili dal punto di vista economico e del welfare (forte intervento dello stato nell’economia, alto livello di spesa sociale), si rivelano invece profondamente diverse quanto ai sistemi di conciliazione adottati e alla filosofia familiare che vi è sottesa.

Nel sistema tedesco la cura del bambino è ritenuta compito tendenzialmente esclusivo della madre, e la riprovazione sociale stigmatizza ancora le cosiddette “rabenmutter”, le “madri corvo” che abbandonano il nido per continuare a lavorare (1). Ne conseguono livelli di fertilità molto bassi, anche inferiori a quello italiano, e una quota notevole di donne tedesche childless. Si differenziano i nuovi Laender della ex Germania est, che in parte mantengono l’eredità dei servizi per l’infanzia generalizzati, tipici dei paesi socialisti. I bambini in età 0-2 anni che frequentano il nido sono circa il 9 per cento dei coetanei (2006), una percentuale vicina a quella italiana. Il modello di conciliazione con prevalente caregiving materno è rinforzato dalla larga diffusione del part-time fra le madri, con contributi previdenziali figurativi nel caso che l’orario ridotto venga richiesto per motivi familiari (2).

In Francia, la diffusione dei servizi per l’infanzia e dei congedi (meno del part-time, di cui non si sottovalutano i rischi per l’uguaglianza fra i generi) è avvenuta all’insegna del sostegno alla natalità e della conciliazione gender-oriented, ma non di meno ha esercitato un effetto positivo, sia sui livelli di occupazione delle donne che sulla fertilità.

Negli ultimi anni, un po’ ovunque ci si sta ponendo il problema di passare dalle politiche di conciliazione a quelle di condivisione. Il governo Merkel ha scelto di andare verso una più equa distribuzione del lavoro di cura fra i generi, con l’introduzione di un congedo di due mesi per i padri, non cedibile ed aggiuntivo rispetto al congedo parentale fruito dalla madre. In Olanda, dove il modello conciliativo si caratterizza per l’elevatissima diffusione del part-time, a partire dal 2000 il governo ha cercato di orientare le scelte dei genitori in direzione di un modello di coppia più egualitario con due lavori a ¾ di tempo, superando quello oggi prevalente, che unisce un lavoro a tempo pieno, solitamente svolto dal padre, e uno a part-time svolto dalla madre (Fasano, pag.87).

Fra le coppie con figli in età 0-14, questo modello di coppia (un tempo pieno maschile e mezzo tempo femminile) è ancora quello numericamente maggioritario nei paesi di area tedesca (Olanda, Germania, Austria, Svizzera) e anche nel Regno Unito (3). Viceversa, le coppie in cui i genitori lavorano entrambi a full time sono poco più del 5% in Olanda, meno del 20% in Germania e più del 40% in Francia e Svezia.

Il part-time, è bene ricordarlo, può essere uno strumento utile non solo e non tanto in quanto orario breve, ma in quanto alternabile a periodi di tempo pieno: da ciò l’importanza delle modalità del passaggio dall’uno all’altro regime orario, modalità più o meno “amichevoli” verso chi lo chiede. In materia di orario di lavoro, infatti, è più cruciale il diritto ad una flessibilità “buona”, che non sic et simpliciter avere “meno orario”.

Lo strumento che più va nel senso della condivisione sembra essere quello dei congedi di paternità o parentali con titolarità non trasferibile dal padre verso la madre. Il paese che riconosce maggiori diritti in tema di congedi è la Svezia, con un congedo parentale che si estende a 390 giorni, retribuiti all’80% e due mesi attribuiti esclusivamente al padre. Nel momento in cui l’istituzione matrimoniale attraversa ovunque una profondissima crisi, i congedi destinati al padre potrebbero assolvere non solo il ruolo di redistribuire il lavoro di cura fra uomini e donne, ma anche quello – importantissimo – di nutrire un legame padre-figlio che sembra molto a rischio, perché non più ancorato alla relazione duratura fra i genitori.

Nel libro di Fasano, pur esauriente nei suoi riferimenti bibliografici e normativi, manca – forse volutamente - un confronto con la situazione italiana (4), confronto che il lettore tende spontaneamente a cercare per ricavarne una qualche indicazione politica. 

Se questo confronto fosse stato fatto, forse sarebbero emerse non solo le nostre ben note arretratezze, ma anche qualche insospettato punto di forza, come quello della scuola per l’infanzia (da 3 a 5 anni), in cui registriamo un tasso di scolarizzazione vicino al 100 per 100, superiore all’obiettivo di Lisbona (90%), con una maggioranza di alunni nelle strutture statali (58,5% nel 2008, con un massimo nel Mezzogiorno: 73%, e un minimo nel Veneto: 32%), laddove in Germania l’obiettivo di Lisbona è solo sfiorato e le strutture pubbliche forniscono solo il 20% dell’offerta (Fasano, pag. 144).

Invece, per quanto riguarda il part-time, la cui diffusione sta molto crescendo anche in Italia negli ultimi anni (5), Fasano documenta che i quattro paesi analizzati prevedono tutti una sorta di “diritto al part-time”, o meglio una qualche forma di “right to work flexibility” in determinate circostanze, al contrario di quanto accade in Italia, dove il datore di lavoro non ha alcun obbligo di venire incontro alle richieste del personale.

Un’altra integrazione utile sarebbe stata quella di documentare con qualche dato demografico quanto le politiche conciliative riescono effettivamente a consentire la realizzazione del progetto riproduttivo delle donne. Non a caso, rileva Fasano (pag. 180), proprio nei paesi che dispongono di strumentazione più completa (Svezia e Francia), “l’elevata spesa pubblica ha incoraggiato sia la partecipazione femminile a tempo pieno al lavoro, sia la fertilità”. Svezia e Francia sono infatti fra i paesi europei con i livelli di fertilità più elevati (1,87 figli per donna) contro un valore bassissimo (1,32) per la Germania e una posizione intermedia per Olanda (1,75).

Infine va detto che i diversi istituti non sono fra loro equivalenti dal punto di vista della spesa pubblica e privata che richiedono, e la preferenza dei singoli paesi per l’uno o per l’altro risente certamente – come rileva l’Autrice -  non solo del modello di welfare adottato e della distribuzione in esso prevista delle responsabilità della cura tra pubblico e privato, tra i generi e le generazioni entro la famiglia, tra la famiglia, lo Stato e il mercato, ma anche della quantità di risorse finanziarie pubbliche a disposizione, che se sono abbondanti consentono maggiori margini di scelta (includendo anche i servizi, la variante più “costosa”), e se non lo sono potrebbero far preferire istituti come part-time e congedi non retribuiti o mal retribuiti: opzioni queste “a costo zero” per il settore pubblico, ma non certo per le famiglie.  Maggiori elementi conoscitivi sui costi potrebbero quindi essere utili per fondare la scelta fra l’una o l’altra alternativa.

Ad esempio, in Italia si obiettano argomentazioni di impossibile sostenibilità finanziaria a qualsiasi proposta di estendere i servizi pubblici per l’infanzia, mentre non si esita a proporre in alternativa il modello francese del quoziente familiare, che avrebbe un costo non inferiore ai servizi. Si tende ad ignorare però il fatto che in Francia il tasso di copertura dei servizi per la prima infanzia (0-2 anni) arriva al 40%, ben più alto del nostro. D’altra parte, occorre chiedersi se il differenziale dei costi unitari dei servizi per l’infanzia (in Italia piuttosto alti e molto diversi nelle realtà locali) trovi sempre spiegazione in un più alto livello qualitativo, oppure risenta anche di un deficit organizzativo (6).

Alessandra Fasano, Conciliare cura e lavoro. Politiche e differenze di genere in alcuni paesi europei
Scriptaweb Napoli, 2010
27 euro (edizione on line con volume in brossura)
 http://scriptaweb.eu/Catalogo/conciliare-cura-e-lavoro
 


(1)        Vanna Vannuccini e Francesca Pedrazzi, Piccolo viaggio nell’anima tedesca”, ed. Feltrinelli 2005 (pag.111)

(2)    Per un confronto tra la cultura tedesca e quella francese in tema di famiglia e le conseguenze sui livelli di fertilità dei due paesi, si veda lo studio “Understanding the long term effects of family policies on fertility: The diffusion of different family models in France and Germany” di Anne Salles, Clémentine Rossier e Sara Brachet, pubblicato su Demographic Research, giugno 2010 del Max Plank Institut.

(3) Il Gender Brief dell’OCSE offre al riguardo (pag.11) un’informazione sintetica e aggiornata, su questo e su altri argomenti.

(4)    Sulla situazione italiana, segnaliamo il volume dell’Istat “Conciliare lavoro e famiglia. Una sfida quotidiana”, a cura di Rita Ranaldi e Maria Clelia Romano, settembre 2008

(5)      In cinque anni, il part-time è passato dal 17,2% delle donne occupate alle dipendenze (2002) al 27,2% nel 2007, rimanendo molto contenuto per gli uomini. Cfr: “Flexible working time arrangements and gender equality. A comparative review of 30 European countries” European Commission, Expert Group on Gender and Employment, 2010.

 

(6)     Vedasi l’indagine della Banca d’Italia Il difficile accesso ai servizi di istruzione per la prima infanzia in Italia: i fattori di offerta e di domanda, di Francesco Zollino, 2008. A pag. 33 viene indicato un costo per utente di 8,84 mila euro/anno in Emilia, 11,50 nel Lazio, ecc.