Politiche

Chieste dall'Europa, sostenute sulla carta anche dalle leggi italiane, le politiche di conciliazione tra vita e lavoro non hanno raggiunto l'obiettivo e sono rimaste un affare di donne, senza scardinare i ruoli  familiari. Bisogna cambiare ottica e livello dell'intervento, nel lavoro e nel welfare

Conciliare stanca.
Cambiamo strategia

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Da quasi vent’anni, l’Unione europea insiste sulla necessità di misure di conciliazione tra vita e lavoro (work-life balance) sia nel campo delle strategie individuali e familiari (condivisione del lavoro di cura), sia nel campo dei luoghi di lavoro (flessibilità favorevole, benefit aggiuntivi), sia nel campo del territorio e del pubblico (piani degli orari, servizi ecc.). Il tema è entrato da dieci anni nell’agenda sociale e politica del nostro paese, ma non è mai diventato il fulcro delle politiche sia sociali che lavorative. E’ stato in qualche modo settorializzato e indicato come “parallelo” all’obiettivo di una maggiore occupazione femminile, del tutto astratto e “nominato” , in ossequio alle indicazioni dell’Unione europea, più che agito. E’ diventata una pratica discorsiva che copre vistosi arretramenti. Ma allora, la deperibilità del concetto di conciliazione va ricercata in un impianto debole a monte (dello stesso acquis comunitario) o nella arretratezza e incomprensione della sua applicazione nel nostro paese?
Credo che a questa deperibilità concorrano entrambi i fattori, tenendo comunque presente che l’impianto conciliativo è stato pensato per un mercato del lavoro fordista e quindi non risponde alle trasformazioni in atto oggi (precariato, discontinuità, ecc.).
Per quanto riguarda gli input della Commissione europea, già la strategia europea di Lisbona appariva carente perché se è vero che la maggiore occupazione era legata alla necessità di mettere in atto strategie di conciliazione, in realtà non indicava agli stati membri il come fare a rendere concrete queste strategie. E questa mancanza ha permesso all’Italia di continuare a navigare sul doppio binario: di un recepimento formale della strategia di Lisbona sull’occupazione femminile e del mantenimento sostanziale della concezione del lavoro delle donne come lavoro residuale, marginale, rispetto al compito centrale a loro affidato di tenere in piedi il welfare e quindi tutto il lavoro di cura e di assistenza alla famiglia.
Dunque, pare proprio che il “patto sociale di genere” proposto dall'Unione europea sia rimasto sulla carta e non sia riuscito a diventare filo conduttore trasversale delle politiche sociali, delle politiche del lavoro, delle politiche familiari, in qualche modo a ridefinire una nuova mappa del welfare. Prova ne è l’impasse della fine legislatura nel maggio 2009 sul riconoscimento del lavoro di cura e sul congedo di paternità.
Il fatto è che se si mette al centro dell’intervento pubblico la conciliazione, bisogna scrollarsi di dosso il malinteso che questa sia in funzione soltanto della maggiore occupazione o occupabilità delle donne, una sorta di ulteriore tutela al ribasso, come a volte è stata interpretata. Tale visione che presenta forti rischi di marginalizzazione e di risegregazione delle donne, senza intaccare la tradizionale divisione dei ruoli.
Queste considerazioni e questi rischi hanno indotto alcuni studiosi a bypassare il termine “conciliazione” e adottare il termine “condivisione”, aggiungendo anche che le politiche di conciliazione hanno oscurato le politiche di pari opportunità e possono persino costituire uno svantaggio per le donne, se non si ammette che il coinvolgimento degli uomini nella cura, nel lavoro domestico e nel crescere i figli sia una precondizione per poter modficare la divisione del genere del lavoro e costruire uguaglianza nella vita pubblica.
Altri studiosi – soprattutto uomini, ad esempio Esping Andersen e Ferrera - mettono piuttosto l’accento sul concetto di defamilizzazione come un obiettivo del welfare state amichevole verso le donne e quindi su un incremento sostanziale dei servizi di cura, riferendosi al modello del  breadwinner universale. In questa prospettiva resta oscurata l’importanza dell’inclusione dei padri nel lavoro familiare non retribuito.
Con una semplificazione un po’ ardita si potrebbe dire che da un lato viene proposto il modello del breadwinner universale (che sembra diventare il modello normativo dominante) dall’altro il modello di caregiver universale, ponendo la cura come valore centrale per la società. E quindi non è solo un problema individuale delle famiglie – o dei soggetti ad esso tradizionalmente delegati, le donne – ma anche e innanzitutto un problema al centro delle politiche sociali.  Allora tema del discorso è come l’essenzialità della cura, il suo valore irrinunciabile si possa trasformare in politiche, cioè possa entrare nella polis, modificando così anche l’organizzazione del lavoro.

Anche in Italia, oggi, si potrebbe iniziare a riconoscere il lavoro di cura, passando da una visione settoriale della conciliazione  (in pratica, se non in teoria, solo riferita alle donne), immettendo come base fondante la necessità della condivisione, per arrivare a quella che vorrei chiamare “conciliazione condivisa”; e lo si potrebbe fare attraverso tre tipi di azioni in tre diversi campi: ridefinire le relazioni e le strategie di donne e uomini all’interno della famiglia,  incrementare i supporti esterni alla famiglia, modificare l’organizzazione del lavoro. Per ciascuna di queste aree di intervento, si possono elencare le carenze del sistema italiano.

Riguardo alla ridefinizione dei ruoli e delle strategie all'interno della famiglia, non sono mai state fatte campagne di mobilitazione culturale sulla condivisione; ci sono pochi esempi, sparsi nel territorio, di campagne di sensibilizzazione nelle scuole per contrastare gli stereotpi di genere, per educare alle differenze, per educare alla cura di  sè , dell’altro, del mondo; non è stata ancora affrontata la risistematizzazione legislativa dei congedi parentali (maggiore indennità, possibilità di usufruire dei congedi a part time);  abbiamo l’indennità     più bassa d’Europa (30% vs il 45% della Francia, il 70% dei Pesi nordici ecc.). E solo ora si sta iniziando ad affrontare il tema del congedo di paternità. (si veda anche l'articolo di Mosca e Ruspini e, sempre sui congedi parentali, quello di Scarponi).


Quanto alle azioni per incrementare i supporti esterni alla famiglia, queste devono fare i conti con lo scarso investimento sui servizi , sia per i piccolissimi (nidi, ecc.) sia per gli anziani non autosufficienti. 

Pochi passi avanti sono stati fatti anche nelle azioni per modificare l’organizzazione del lavoro: la riforma dell’art.9 della legge 53 sui finanziamenti alle aziende è rimasta sulla carta, sono  ancora in stallo i bandi. E quando non ci sono i soldi i diritti diventano progetti, nella migliore delle ipotesi. Nonostante i cambiamenti, il modello ancora prioritario nel mercato del lavoro è attestato su un modello male oriented, funzionale al modello fordista. Nel modello male oriented, la disponibilità di tempo e di spazio implica anche una carriera lineare, mentre appunto le donne incorrono più degli uomini nell’opting out, nel “chiamarsi fuori” in determinate fasi del loro corso di vita. Per necessità e per scelta, secondo un principio di libertà fondato sul e/e. Ma questo è un modello obsoleto, basato su una divisione dei ruoli che non ha più ragione di esistere, che porta a registrare i buchi neri che ci sono non nella questione delle donne o nella partecipazione delle donne, ma nella relazione tra uomini e donne nella società. Si potrebbe modificare il modello attraverso interventi che vengono sperimentati in alcune aziende (orari flessibili e personalizzati, revisione del part time perché non sia più penalizzante, supporti aggiuntivi), ma sono rimasti isolati.

Si potrebbe quindi concludere che in nessuno dei campi che concorre a definire un vero sistema di conciliazione l’Italia abbia carte da giocare. Restiamo ancora in definitiva nel campo del familismo per default, affidato alla solidarietà intergenerazionale che coinvolge donne e nonni (si veda il dibattito sul piano “Italia 2020” di Sacconi/Carfagna).
Il problema è che le donne, sia negli elementi strutturali (maggiore istruzione, ecc.), sia negli elementi identitari (consapevolezza di sè e del proprio valore, ecc.) sono molto lontane dal modello familista e invece, a partire dalla complessità  delle loro vite, interrogano il modello sociale e lavorativo che viene loro proposto. E’ il rovesciamento del modello che è in discussione, non il fatto di volersi inserire nelle pieghe “compassionevoli” che a volte –  peraltro raramente - la società e le aziende propongono loro. Io credo che bisogna rovesciare l’ottica. Non guardare loro, le donne, né con compassione né con cinica ammirazione: partendo da loro guardare il mondo del lavoro, con le sue leggi scritte e non scritte, con la sua inutile e obsoleta rigidità, e guardare l’intera società, che mentre si proclama familista, mentre lamenta il futuro incerto che si prospetta per un paese sempre più abitato da vecchi e spopolato di bambini, si permette di dimenticarsi di politiche lavorative, sociali e familiari degne di questo nome.