Aspetti di genere della recessione economica e della crisi finanziaria
Le fasi recessive, come quella attuale, implicano alcuni cambiamenti sociali, specialmente in un’ottica di genere. Rispetto alle crisi precedenti le donne costituiscono oggi una quota crescente del mercato del lavoro, rendendole di fatto ancora più vulnerabili. In particolare, se un rilevante numero di donne è impiegato in settori meno esposti alla crisi, una quota ancor più significativa è esposta al rischio di licenziamento in quanto impegnata in impieghi “marginali” e caratterizzati da modesti livelli retributivi. Proprio il persistere delle differenze salariali a livello di genere, tuttavia sta consentendo alle donne di mantenere talune volte con più probabilità il posto di lavoro rispetto agli uomini. La dinamica delle retribuzioni tra uomini e donne spiega in parte il motivo per il quale l’occupazione femminile sia stato il volano della continua crescita degli occupati nell’UE a partire dal 2000.
Nonostante alcuni progressi registrati sugli aspetti di genere, il quadro generale rimane ambivalente. I tassi di occupazione femminile variano a livello nazionale e sono generalmente bassi per le donne con figli in età prescolare. Più in generale le donne lavorano meno ore (prevale il part-time) rispetto agli uomini, così come guadagnano in proporzione meno (salario orario inferiore) e sono maggiormente esposte al rischio di povertà (in quanto spesso impiegate presso PMI e a tempo determinato). Questi limiti spiegano al contempo il motivo per cui i progressi sul mercato del lavoro possono apportarli principalmente le donne. Non a caso i Paesi dove la ripresa è più esitante sono proprio quelli che manifestano tassi di occupazione femminile piuttosto bassi. Al contrario, laddove la quota di donne lavoratrici è più consistente, la capacità di tenuta dell’occupazione femminile risulta superiore a quella maschile.
La crisi ha avuto anche l’effetto di stoppare la crescita della partecipazione al mercato del lavoro, che resta sostanzialmente invariata dal 2008, anche se l’analisi di genere mette in luce come la riduzione della disuguaglianza sia attribuibile all’effetto psicologico di scoraggiamento, che coinvolge in prevalenza gli uomini, e alle difficoltà attraversate da due settori “dominati” dall’occupazione maschile, quali l’edilizia e l’industria.
Nei quattro Paesi considerati (Gran Bretagna, Grecia, Italia, Polonia) gli uomini sono più colpiti delle donne.
I dati empirici evidenziano che la crisi fino al 1° trimestre 2011 ha avuto un impatto maggiore proprio sugli uomini, riducendo di fatto il divario di genere. L’effetto di scoraggiamento incide maggiormente sulla disoccupazione maschile rispetto a quella femminile, che tende a sua volta a ridursi con l’avanzare dell’età. Ciò non significa che la crisi abbia segnato definitivamente una riduzione delle disuguaglianze di genere. Alcuni effeti potrebbero ritardare a manifestarsi, specialmente se si considera che le risposte politiche alla seconda fase della crisi si concentrano sulla finanza pubblica, con il rischio associato di vedere ridimensionate le politiche di genere a favore di politiche tese a favorire la ripresa dell’occupazione. Nel frattempo la crisi ha interrotto il processo verso la parità di genere nel mondo del lavoro. Occorre, pertanto, intervenire affinché non si inneschi un processo inverso, che potrebbe essere favorito da una diffusa assenza di consapevolezza tra i policy makers (specialmente a livello locale). La crisi, invece, può essere un fattore capace di favorire il progresso in Europa a condizione che si veda l’uguaglianza di genere come un catalizzatore per l’efficienza, l’equità e la convergenza tra i Paesi dell’UE.