Continua la discussione su donne e pensioni. Uno sconto a fine carriera non può e non deve essere la ricompensa per una vita di disuguaglianze sul lavoro. E si può partire dall'età pensionabile per riformare tutto il resto. Ma lo "scalone" del governo non è l'unica soluzione
L’Italia si avvia ad adottare la soluzione “scalone” per uniformarsi alla sentenza della Corte di Giustizia Europea sulle donne Inpdap. Si tratta di una soluzione non esente da critiche e dubbi sia tra politici e sindacalisti che tra tecnici, come testimoniato anche dalle argomentazioni nei contributi di Raitano e di Casarico-Profeta. Eppure, questa sentenza della Corte può funzionare da “appoggio esterno” per le riforme del welfare e, in questa prospettiva, andrebbero tenuti distinti i due piani: da un lato l’uniformità delle regole pensionistiche tra donne e uomini, dall’altro la natura delle stesse regole (soglie anagrafiche?, quote anagrafiche e contributive?, pensionamento flessibile?).
L’uniformità di genere delle regole
Al di là delle motivazioni strettamente giuridiche (disparità di trattamento sul mercato del lavoro), la richiesta della Corte mette a nudo i limiti del nostro welfare. Non è con un anticipo della pensione, a fine vita lavorativa, che si può perseguire la parità uomo‐donna nel mondo del lavoro e nella società. La parità andrebbe ricercata in contemporanea con ogni fase della vita: parità nelle opportunità e nelle possibilità di scelta. La diseguaglianza alla fine, nell’età del pensionamento, adesso in un certo senso certifica che ci sono diseguaglianze da accettare durante tutto il resto della vita, e nei confronti delle quali non abbiamo capacità o volontà di risoluzione e rinnovamento.
Allo stato attuale, si realizza una triplice discriminazione. Contro gli uomini, che devono andare in pensione di vecchiaia più tardi delle donne: è la discriminazione che rileva dal punto di vista della Corte ma, paradossalmente, è anche quella meno importante per comprendere le ragioni welfariste a supporto dell’equiparazione. Contro le donne, cui è riservata solo una consolazione a fine vita lavorativa delle maggiori difficoltà che devono fronteggiare sul mercato del lavoro e nella conduzione delle incombenze familiari. Contro tutti gli outsider, in maggior proporzione donne, cui manca un welfare system moderno, articolato, trasparente, in grado di attivare flussi redistributivi temporalmente tempestivi rispetto ai bisogni e mirati al superamento degli stessi. L’allungamento delle carriere per tutti è, infatti, uno snodo essenziale, assieme alla diversificazione multipilastro delle pensioni (la “gamba” privata dei fondi pensione), per liberare risorse pubbliche a supporto degli istituti di welfare a finalità redistributive oggi in Italia gravemente sottodimensionati o addirittura assenti (famiglia, figli/minori, conciliazione, non autosufficienza, etc.). Il dispositivo della sentenza della Corte è illuminante al riguardo: “[…] La fissazione, ai fini del pensionamento, di una condizione d’età diversa a seconda del sesso non è tale da compensare gli svantaggi ai quali sono esposte le carriere dei dipendenti pubblici di sesso femminile aiutando queste donne nella loro vita professionale e ponendo rimedio ai problemi che esse possono incontrare durante la loro carriera professionale […]”.
Le pensioni, invece, sono un cattivo strumento di redistribuzione: muovono risorse a distanza di 35-40 anni rispetto all’inserimento nel lavoro, sfasate rispetto alle stagioni e ai ritmi dell’esistenza; lo fanno “alla cieca”, perché si ignora quali possano essere le condizioni reddituali e patrimoniali dei beneficiari dopo un così lungo periodo; tendono a concentrare la redistribuzione all’interno della platea degli occupati, mentre la funzione redistributiva dovrebbe rivolgersi a tutti i cittadini sulla base di regole di priorità e di merito. Tanto più che, mano a mano che passerà a regime il criterio di calcolo contributivo della pensione (il “Dini”), la redistribuzione di genere, per il tramite di un pensionamento di vecchiaia anticipato rispetto agli uomini, andrà sempre più riducendosi.
Assodata, dunque, anche la ratio economica e welfarista alla base dell’equiparazione, si deve cominciare a riflettere sul fatto che il problema non si limita né alla gestione Inpdap né al pensionamento di vecchiaia, ma coinvolge anche la gestione Inps e i coefficienti “Dini” di trasformazione del montante in rata pensionistica all’interno del criterio di calcolo contributivo. Questi coefficienti sono oggi gli stessi per donne e uomini, a fronte di una speranza di vita post-pensionamento che è diversa. Coefficienti indifferenziati redistribuiscono dagli uomini alle donne ma, come già per il pensionamento di vecchiaia, non è questo il canale redistributivo più adatto e più utile alle donne. La perfetta parità delle regole vorrebbe che i coefficienti fossero distinti e rispecchiassero la diversa durata della vita media. Se la Corte Europea fosse adita anche per la gestione Inps e per i coefficienti “Dini”, non potrebbe non applicare per estensione le stesse motivazioni contenute nel dispositivo della sentenza Inpdap. È auspicabile che qualche soggetto qualificato sollevi anche questi aspetti innanzi alla Corte.
Quali regole uniformi adottare?
Se dalla questione dell’uniformità delle regole di pensionamento si passa a valutare quali regole uniformi adottare, allora il piano del discorso cambia. Alla Corte preme che nelle regole non ci siano diseguaglianze di genere, ma non è interesse né compito della Corte entrare nel merito delle regole. Anche una finestra di pensionamento flessibile, identica per donne e uomini come prima della riforma “Maroni-Tremonti” del 2007 poi modificata dalla “Prodi” (le attuali quote di età e anzianità), darebbe soddisfazione alla Corte.
Il pensionamento flessibile (fascia 62-67, o 63-68, con estremi indicizzati alla dinamica della vita attesa) tutela molto di più la varietà delle esigenze individuali e, nel contempo, responsabilizza le scelte perché chi va in pensione prima ottiene un assegno più basso, chi va in pensione più tardi ne ottiene uno di importo maggiore. Si tratterebbe di recuperare appieno lo spirito originario della riforma “Dini” e di estenderne il funzionamento anche alle pensioni retributive (o con quote retributive) tramite l’applicazione di correttivi attuariali in aumento o in diminuzione a seconda dell’età di pensionamento.
Questo assetto porterebbe effetti positivi per il mercato del lavoro, perché non ostacolerebbe il fisiologico turnover anziani-giovani (soprattutto in periodi di disoccupazione e bassa crescita), e non impatterebbe in maniera negativa sulla produttività di chi è costretta/o a rimanere al lavoro controvoglia in attesa di maturare requisiti anagrafici/contributivi. Supportare il fisiologico turnover è molto importante soprattutto nel pubblico impiego, dove è di gran lunga preferibile permettere il volontario pensionamento di occupati a bassa produttività, per sostituirli con persone più giovani, con maggior capitale umano, e anche con retribuzioni inferiori perché nella fase iniziale di carriera (il ricambio non sarebbe neppure di 1:1). Con effetti positivi sulla produttività sistemica e sulle finanze pubbliche.
In conclusione …
L’Italia deve rispondere in tempi stretti alla Corte di Giustizia e, nell’immediato, l’equiparazione della pensione di vecchiaia a 65 anni per donne e uomini è la soluzione più diretta (quella che raccoglie verbatim la richiesta dell’Europa). Nondimeno, in previsione di una estensione dell’equiparazione all’Inps e ai coefficienti “Dini”, sarebbe bene farsi trovare pronti con un disegno di riforma che preveda la reintroduzione di una finestra anagrafica per il pensionamento flessibile e importi delle pensioni adeguati alla vita attesa post-pensionamento. Per le pensioni (e le quote di pensione) contributive questo adeguamento è già implicito nell’applicazione dei coefficienti “Dini” di trasformazione del montante nozionale in rendita; per le pensioni (e le quote di pensione) retributive si dovrebbero introdurre correttivi attuariali con la medesima funzione dei coefficienti. Sarebbero garantite: perfetta equiparazione di genere, rispetto delle scelte individuali, basi nuove per relazioni virtuose tra pensioni, mercato del lavoro e welfare system.
Per saperne di più, cfr. anche:
- “La Corte di Giustizia Europea e le pensioni”, Editoriale del CeRM n. 15 del 29.11.2008;
- “L'ambito di validità della sentenza della Corte di Giustizia sull’età di pensionamento di vecchiaia per le donne”, Editoriale del CeRM n. 3 del 4.3.2009;
- “Il sistema pensionistico: quale riforma?”, contributo del CeRM al volume “La riforma del welfare. Dieci anni dopo la ‘Commissione Onofri";
- “Riformare le pensioni per riorganizzare il welfare”, Editoriale CeRM n. 2-2009 del 18.2.2009 ();
- “Come velocizzare il passaggio al sistema di calcolo contributivo delle pensioni? Una proposta operativa per rafforzare l’aggancio alla vita attesa e incentivare il prolungamento delle carriere”, di N. C. Salerno, in pubblicazione su Rivista del Diritto della Sicurezza Sociale.