Dati

L'impatto fortissimo di una fabbrica di auto che assume il 18% di donne, a sud. L'emancipazione dei vecchi lavoretti, le trasformazioni sociali e la vita da "famiglie metalmeccaniche". E poi la crisi, con il ritorno della vecchia economia informale. Così adesso alle donne di Melfi può capitare di fare 3 giorni da operaie e 3 da estetista, per sostenere il reddito familiare

Fiat e famiglie. La parabola
delle operaie di Melfi

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Leonardo Pisani - 40 anni e Pina Imbrenda - 42 anni, operai Fiat, Melfi (Potenza) (foto Pippo Onorati - mammanannapappacacca)

Le donne in tuta amaranto di Melfi, al sorgere dello stabilimento della Fiat nel 1993, avevano caratterizzato il passaggio alla nuova fabbrica integrata e al modello giapponese inaugurando, proprio nel sud d’Italia, ciò che i teorici dell’organizzazione hanno denominato, non senza qualche perplessità, post-fordismo.

A distanza di soli vent’anni le tute amaranto non ci sono più: eppure si era trattato di un simbolo di forte portata, che marcava la fine delle tute blu, e dunque il passaggio ad una nuova era per il lavoro metalmeccanico e pesante. Già da alcuni anni le tute Fiat sono diventate tute bianche, segno di un lavoro sempre più automatizzato e digitalizzato, che non ha però consegnato al passato la ben nota catena di montaggio di memoria fordista; piuttosto, ne ha radicalmente modificato i modi di esecuzione, nella direzione di una crescente automazione ed attenzione all’ergonomia, ma contestualmente, anche i tempi, accelerandoli e intensificandoli.

Nella grande fabbrica di Melfi denominata Sata (1), della superfice di 2 milioni e 700.000 metri quadrati,  con una previsione di produzione, all’avvio dello stabilimento, di 450.000 vetture annue, le donne hanno avuto un peso numerico in apparenza non così significativo: il 18% della manodopera, su un totale complessivo previsto di 7.000 dipendenti, che attualmente, secondo la Fiom, si attestano sui 5.700 circa. Si tratta tuttavia della percentuale femminile più alta mai avuta in Fiat, dove la media femminile è del 12%, e di una valenza culturale che va molto al di là del dato numerico: donne metalmeccaniche in Basilicata, una regione con forti ritardi di sviluppo industriale e con una disoccupazione femminile tra le più alte d’Italia, dove queste donne hanno segnato realmente, dal punto di vista antropologico che qui si assume,  una svolta nel mondo del lavoro, nei tempi della vita locale, negli equilibri familiari e sociali  e nei ruoli di genere. Famiglie Fiat, createsi all’interno dello stabilimento con unioni nate sul posto di lavoro, hanno organizzato la loro vita di coniugi metalmeccanici incastrando turni differenti, in modo da poter gestire alternativamente la vita di coppia e i compiti di cura della famiglia, nel quadro di una crescente collaborazione paritaria, molto più articolata di quella che si poteva rintracciare nelle generazioni dei loro genitori: famiglie dove si riscontra dunque il modello dual earner, ancora così faticoso nella sua piena diffusione in Italia, affermatosi progressivamente a Melfi e in piccoli paesi dove le donne lavoravano sì nelle campagne, ma solo in supporto dei mariti, in maniera quindi invisibile e non riconosciuta, dove i retaggi di vecchi modelli patriarcali facevano ancora sentire la loro eco, dove la cura della famiglia ricadeva in maniera pressoché esclusiva nei compiti ascritti alle donne.

Le donne della Fiat hanno prodotto con il loro reddito operaio, in quanto secondo reddito, un benessere spesso superiore alla media delle famiglie locali, con nuovi consumi, nuovi stili di vita, nuovi atteggiamenti consumistici e talvolta ostentatori, che hanno costituito il riverbero sociale di uno status lavorativo percepito come invidiabile nei contesti di appartenenza, costruito dalle donne con una vita di lavoro duro e con una faticosa conciliazione quotidiana, quella tra i tempi della fabbrica, tra i turni e la durezza del lavoro della linea e i tempi e i valori della cura familiare.

I percorsi di emancipazione variegati e multiformi che hanno interessato le donne della Sata, portando anche a nuove famiglie ricostituite fondate su più moderni rapporti tra vecchi e nuovi nuclei familiari, sembrano subire una battuta d’arresto con la crisi attuale. Lo scenario odierno è preoccupante, ma soprattutto molto contradditorio rispetto alle conquiste comunque ottenute venti anni fa, al momento dell’assunzione. Le giovani donne, tutte al di sotto dei 32 anni, in maggioranza diplomate, avevano vissuto lo stacco, in apparenza definitivo, rispetto ad un passato di precarietà lavorativa, di lavoro temporaneo e in nero, caratterizzato da  assenza  di tutele e violazioni dei diritti: insomma lavori minuscoli, per usare la famosa espressione di Aris Accornero; avevano raggiunto finalmente una condizione di lavoro tutelata e garantita, stabile, anche se di fatto avevano pagato con un lavoro duro e con una complessiva retrocessione del contratto, rispetto alle altre fabbriche Fiat, quella che nel contesto era stata comunque una conquista di sicurezza lavorativa e  di status agiato. Attualmente, molte di loro sono le prime ad adoperarsi per riprendere i loro vecchi “lavoretti” in nero, come estetista domiciliare, come rappresentanti per marchi di prodotti per la casa, collaboratrici domestiche o assistenti per gli anziani, allo scopo di integrare i sempre più esigui redditi da operaie decurtati dalla cassa integrazione, in un curioso sincretismo materiale ed esistenziale, che ripropone in parte il ben noto pragmatismo delle donne teorizzato da Amalia Signorelli per le contadine meridionali: non certo un’astorica componente “naturale” delle donne, quanto invece il correlato culturale di una condizione materiale, storicamente determinata, di invisibilità lavorativa, di lavori di sostituzione e integrazione di quelli maschili, che hanno costituito parte integrante dell’economia contadina meridionale nel corso del Novecento.

Oggi che il mercato automobilistico segna battute d’arresto in tutto l’occidente, e la Fiat (ormai Fiat-Chrysler) fatica molto più di altri marchi, la posizione e lo status delle donne della Sata sono gravemente minacciati: quale destino le attenda dipende dalla ristrutturazione in atto a Melfi, dalla produzione di due nuovi modelli (500 X e Mini Suv Jeep), dall’ulteriore anno di lavoro ridotto e di cassa integrazione che separa dall’avvio della nuova produzione (2).

Le donne della Fiat patiscono, assieme ai loro colleghi uomini, le ristrettezze dello stipendio ridotto con la cassa integrazione guadagni, vivono un clima di crescente tensione lavorativa, di impossibilità in questa delicata fase di manifestare esigenze fondamentali, come l’astensione dal lavoro per malattia o l’impossibilità di sostenere postazioni pesanti, dovute alle ridotte capacità lavorative: il timore di poter perdere il lavoro, di una eventuale riduzione del personale conseguente alla ristrutturazione inducono, a torto o ragione, a sopportare e a stringere i denti, anche in funzione di una settimana lavorativa articolata su soli tre giorni a settimana e su pause  a singhiozzo.

Quale sarà il futuro dello stabilimento lucano, e più in generale delle fabbriche italiane di Fiat-Chrysler, è ancora da stabilire, all’interno di una crisi globale che tuttavia si declina, come il caso Fiat rende evidente, nel quadro di una serie di debolezze strutturali e politiche specificamente italiane. Come illustrano autorevoli teorici della fase attuale della globalizzazione, quali Guy Standing e Peter Marsh (3), le imprese risultano sempre più labili e costantemente in trasformazione, a causa delle fusioni internazionali, delle delocalizzazioni  e ri-localizzazioni, delle frequenti modifiche degli assetti societari; al contempo, come esemplifica il caso di Melfi, il lavoro perde in stabilità e  sicurezza e diviene sempre meno capace di influire, con le sole doti di impegno e costanza profuse nel lavoro, sui destini collettivi dei lavoratori.

Difficile fare previsioni, dunque, ma è indubbio che la politica nazionale sia comunque chiamata a porsi il problema e a fare la sua parte: le donne di Melfi, nel frattempo, stanno indubbiamente già facendo la loro.

 

(1)  L’acronimo Sata sta per Società Automobilistica Tecnologie Avanzate, una New Company fondata dalla Fiat a Melfi, che come tale è partita con un contratto a sé stante, siglato nel 1993, contraddistinto da alcune retrocessioni rispetto alle altre fabbriche del gruppo, di cui si parla più avanti. Tra queste, gabbie salariali, sabato lavorativo, turno notturno femminile.

(2)  l’AD della Fiat Sergio Marchionne inizia la fusione con Chrysler nel 2009, poi condotta fino al 58% della quota azionaria nel 2012. A giudizio di studiosi come Giuseppe Berta e Giuseppe Volpato, la fusione costituiva un atto necessario, ma dagli esiti comunque incerti sulla configurazione globale dell’azienda. La produzione ridotta e la cassa integrazione inizia nel settembre del 2011, mentre dal febbraio del 2013 prosegue nella forma di cassa integrazione straordinaria per ristrutturazione.

(3)  Ci si riferisce ai saggi di G. Standing Precari, 2012, e di P. Marsh The New Industrial Revolution, 2012.  

* Si ringrazia per l'uso della foto Pippo Onorati, mammanannapappacacca