Politiche

Se c'è una lezione che abbiamo imparato dalla Brexit, è una lezione storica. L'analisi di Elizabeth Pollitzer

Lezioni di Brexit.
L'anno zero dell'Ue?

6 min lettura
Foto: Flickr/Jeff Djevdet

Il 23 giugno 16.141.241 elettori hanno votato per rimanere in Europa, mentre 17.410.742 hanno votato per uscire, una maggioranza determinata da 1.269.501 persone. Come conseguenza e magra consolazione il Regno Unito ha la seconda premier donna Teresa May, cosa che nulla toglie alle forti preoccupazioni su come è stata condotta la campagna referendaria e, soprattutto, su quello che accadrà ora.  

In primo luogo la pressione politica europea e le minacce di punizione in caso di Brexit hanno contribuito a polarizzare l’opinione pubblica. “Chi non è con me, è contro di me”: forse Bruxelles ha usato il caso inglese per mandare un messaggio a tutti gli altri paesi e prevenire altre spinte centrifughe?

È importante ribadire che non tutti i 17 milioni di votanti che si sono espressi per la Brexit rifiutano in toto l’ideale dell’Unione Europea. Molte persone in Inghilterra vogliono essere parte dell’Europa, ma vorrebbero anche poter determinare in una qualche misura come dovrebbe essere questa Europa. È importante ribadire anche che non tutti i 16 milioni che hanno votato Remain sono entusiasti dell’Unione così come è oggi. In molti dentro e fuori il Regno Unito dubitano del grand project che si basa sull’assunto che l’integrazione politica ed economica a tutti i costi sia il miglior modo per promuovere la coesione europea.  

Non sappiamo come hanno votato le donne al referendum, ma possiamo dire che nel Regno Unito le donne sono circa un milione in più degli uomini, quindi è possibile che abbiano avuto un ruolo importante nel determinare il risultato. La campagna a favore della Brexit l’ha capito molto bene e ha indirizzato messaggi specifici alle donne con argomenti pensati per far leva sulle loro solide convinzioni di madri e responsabili del lavoro di cura. Uno dei messaggi principali per esempio era che i problemi con il sistema sanitario nazionale (per esempio il ritardo nelle diagnosi di cancro al seno) e i problemi con il sistema scolastico (per esempio il taglio al numero di posti disponibili in alcune aree geografiche) siano legati alla libertà di movimento che dà ai cittadini europei la possibilità di vivere e lavorare nel Regno Unito.  

Il “fattore donna” è stato ulteriormente cavalcato dai leader della Brexit che hanno decantato i vantaggi di vivere fuori dall’Unione portando come esempi i benefici di vivere in Norvegia o in Svizzera, e non hanno detto niente sulle differenze cruciali tra gli atteggiamenti verso le politiche di genere di questi paesi che possono essere così sintetizzate: in Norvegia c’è una lunga tradizione di impegno per la parità, mentre in Svizzera le donne hanno avuto accesso al voto solo nel 1971. 

Di contro, la campagna del Remain ha completamente ignorato le donne, forse perchè non erano considerate un argomento alla pari con il ricatto della perdita dell’influenza economica o i benefici del mercato unico? Non ci scandalizziamo, da sempre politici ed economisti hanno la tendenza a ignorare la rilevanza delle donne nella vita economica. La campagna Remain avrebbe potuto usare argomenti a favore molto facilmente se si fosse basata sulla difesa dei benefici che le donne inglesi e le europee hanno acquisito grazie all’Europa e al fatto che l’uguaglianza tra uomini e donne è uno dei principi fondanti della legge europea, e che la partirà di genere è integrata in numerosi trattati.

Un’altra opportunità per dimostrare i benefici di un’adesione europea ignorata dalla campagna Remain è una lezione storica, in particolare tutte le parti in causa hanno dimenticato come le radici dell’Unione europea vengono fatte risalire al maggio del 1945, quando le forze alleate hanno compreso quanto fosse importante aiutare i tedeschi sconfitti e demoralizzati a ripristinare la propria umanità dopo quindici anni di indottrinamento nazista. 

Nel suo libro L’amaro sapore della vittoria, Lara Feigel racconta il dibattito tra Inghilterra, USA, Francia e Russia su come costruire una nuova Germania e una nuova Europa. La risposta fu: cultura e non punizione. E così gli Stati Uniti mandarono a Berlino Marthe Gellhorn, Marlene Dietrich, Ernest Hemingway, Billy Wilder, e altri giornalisti, attori, scrittori e registi per promuovere un ideale americano di democrazia e cultura. L’Inghilterra mandò Rebecca West, Stephen Spender, Wystan Hugh Auden, e Laura Knight, così come altri scrittori, poeti e pittori per promuovere un ideale anglosassone di democrazia e cultura. La Francia mandò Paul Sartre e Simone de Beauvoir, “perché le idee esistenzialiste erano particolarmente attraenti per tutti coloro che erano ansiosi di classificare il 1945 come l’anno zero”.  

Sia l’Inghilterra che l’Europa - con tutti gli stati membri - dovrebbero guardare alla Brexit come un salto nel vuoto. Il processo di uscita è descritto nell’articolo 50 del Trattato di Lisbona in sole 250 parole. In questo spazio così limitato vengono specificate solo tre condizioni: 1) un limite di due anni tra l’inizio dei negoziati e l’uscita dall’Europa, 2) che i termini dell’uscita siano approvati dal Consiglio d’Europa, 3) che i termini del negoziato vengano ufficialmente approvati dal Parlamento Europeo. Il mancato soddisfacimento di queste tre condizioni potrebbe implicare una Brexit senza un accordo. “Senza un accordo” significa per esempio che gli scienziati inglesi non avranno accesso ai fondi del programma Horizon 2020, o che il governo non avrà l’obbligo di allinearsi alle direttive europee sulla parità di genere. È verosimile che la dimensione di genere o il bilancio di genere nella scienza non faranno più parte dei programmi di ricerca, almeno non nella misura e nel modo in cui incidono su Horizon 2020.    

È stato detto molto poco sull’articolo 50 durante la campagna del referendum, e la domanda da porci oggi è: I leader della Brexit hanno pianificato di usare l’articolo 50 per orchestrare il fallimento di un’uscita soddisfacente per entrambe le parti, sapendo che possono addossare la colpa non alla loro avventata ambizione ma all’Ue?  

Cosa si può fare adesso? Un sondaggio del British Future thinktank ha trovato insoddisfacente il modo in cui è stata fatta la campagna per la Brexit, con la metà del pubblico (52%). Più di 4 milioni di inglesi hanno firmato la petizione per rifare il referendum, il comitato parlamentare ha stabilito che la camera dei comuni dibatta la petizione il 5 settembre 2016. Questo dibattito permetterà ai membri del parlamento di esprimere la propria opinione in rappresentanza dei propri elettori e al governo di dare una risposta ragionata. Si spera che questo dibattito si limiti a fatti e dati. Uno dei modi in cui i nostri amici in Europa possono influire sul tono della discussione è quello di dire al parlamento e al Regno Unito “vogliamo un’Europa con il Regno Unito” e magari lanciare una petizione europea su questo per fare pressionesui leader politici affinché il risultato del referendum è l’ora zero per l’Europa. 

L’esperienza della Brexit dimostra quando facilmente le opinioni delle persone possano essere polarizzate e rese estreme se esposte ad argomentazioni che usano mezze verità per strumentalizzare i valori e le convinzioni. Quello di cui c’è bisogno ora non è una punizione per l’Inghilterra, ma un processo di riesame dei valori fondanti dell’Europa basati sulla conoscenza e sul ruolo centrale della cultura e delle relazioni culturali. 

Dovremmo riflettere su quello che è successo in Germania nel 1945, e imparare che i cittadini provano fastidio anche per le politiche giuste e foriere di un mondo migliore, quando sono poltiche in cui non hanno voce in capitolo. La storia ci dice che l’unità prospera meglio sul principio che “chi non è contro di me è con me” perché questo lascia spazio alla tolleranza, alla cooperazione e al dialogo interculturale che promuove una migliore comprensione e fiducia. 

Leggi la versione inglese dell'articolo