La riforma degli organismi di parità, ovvero: l'eguaglianza presa sul serio. La vicenda della Consigliera di parità, che dovrebbe godere di indipendenza, e che invece è stata revocata dal governo perché "non in linea"
Nel nostro paese si parla da tempo di riforma degli organismi di parità allo scopo di rimettere ordine in una materia che ha visto negli anni una disordinata proliferazione di figure, sia di fonte legale che contrattuale, con la finalità di promuovere pari opportunità tra uomini e donne nel lavoro, i cui risultati si sono rivelati complessivamente piuttosto modesti. La sedimentazione di organismi di parità a tutti i livelli non è stata, infatti, sostenuta da una reale politica di promozione dell’eguaglianza di genere nella vita politica e sociale, malgrado l’istituzione di un apposito ministero delle Pari Opportunità, che pure avrebbe dovuto perseguire tali obiettivi al livello più alto dell’azione di governo. Il solo tentativo serio di rafforzare gli organismi di parità attribuendo loro risorse e scommettendo sulla loro autorevolezza risale al decreto legislativo n. 196 del 2000, che ha istituito la Rete nazionale delle Consigliere di parità e il Fondo per la loro attività. Da allora, la vita degli organismi di parità è stata segnata da misure di semplificazione amministrativa e di razionalizzazione della spesa pubblica, che hanno finito per erodere le scarse risorse disponibili, e da interventi che ne hanno accentuato la vocazione burocratico-ancillare rispetto al potere politico.
La vicenda della Consigliera di parità appare emblematica. Unico tra gli organismi di parità a svolgere, accanto a funzioni promozionali, anche specifiche funzioni antidiscriminatorie che culminano nell’azione in giudizio a fianco o in sostituzione della lavoratrice discriminata, nonché nella legittimazione all’azione collettiva anche quando non siano individuabili in modo immediato e diretto i soggetti lesi dalla discriminazione, questo organismo monocratico, presente a livello nazionale, regionale e provinciale, collegato in una Rete, coordinata dalla Consigliera nazionale, che ne rafforza l’attività attraverso programmi, scambi di informazioni e buone prassi e supportato da un apposito Fondo di funzionamento ripartito annualmente secondo criteri oggettivi, è nominato dal ministro del Lavoro, di concerto con il ministro per le Pari Opportunità, su designazione dei competenti organi delle regioni e delle province, con mandato quadriennale rinnovabile una sola volta. La malintesa accezione di tale potere di nomina da parte del ministro come implicante anche il potere di revoca ove venga meno il gradimento politico, appare, se confermata, suscettibile di ledere in modo irreparabile l’indispensabile autonomia dell’organismo.
Infatti, in considerazione dell’elevato spessore tecnico dei compiti assegnati e della neutralità che deve caratterizzare l’esercizio di funzioni antidiscriminatorie, la legge (oggi: codice delle Pari Opportunità) richiede alle persone che si candidano all’ufficio il possesso di requisiti tecnici di specifica competenza ed esperienza pluriennale in materia di lavoro femminile, di normativa sulla parità e pari opportunità e di mercato del lavoro, requisiti la cui assenza implica l’esercizio del potere sostitutivo da parte del Ministro. Il decreto di nomina, insieme al curriculum della persona nominata è pubblicato in Gazzetta Uffiiciale al fine di dare pubblicità e trasparenza alle nomine. Di fatto il possesso di adeguati requisiti tecnici è stato sovente disatteso e la pubblicazione del curriculum non sembra aver costituito un deterrente sufficiente ad arginare pratiche degenerative volte non alla valorizzazione del profilo tecnico delle persone da nominare, quanto piuttosto della loro lealtà politica. Si è così assistito ad uno scivolamento di fatto verso una concezione fiduciaria dell’incarico da parte dell’organo designante, che porta alla scelta di persone prive della caratura tecnica richiesta, a evidente discapito dell’esercizio della funzione antidiscriminatoria, di notevole complessità tecnica, come testimonia l’imponente sviluppo del diritto comunitario.
Ma il vulnus più insidioso al carattere di terzietà e di garanzia richiesto dall’esercizio di funzioni antidiscriminatorie, in direzione di un chiaro mutamento di natura della Consigliera di parità -da tecnica a politica- si è avuto con la motivazione posta a base del d. m. 30.10.2008 di revoca della Consigliera nazionale di parità in base al meccanismo di spoils system, per la prima volta applicato a tale organismo. Proprio “la mancanza di sintonia con gli indirizzi politici del governo” è stata invocata dal ministro come motivo giustificativo della rimozione dall’incarico ante tempus, per aver la Consigliera segnalato, anche a nome della Rete, l’impatto discriminatorio dei provvedimenti in materia di detassazione degli straordinari e di distribuzione dei premi aziendali ad personam, “suscettibili di accrescere il divario salariale tra lavoratori e lavoratrici a causa della rilevata impossibilità/difficoltà delle donne ad un sistematico prolungamento degli orari di lavoro dovuta all’ineguale ripartizione tra uomini e donne del lavoro di cura”, nonché di abrogazione della legge 188/2007 sulle dimissioni volontarie, che avrebbe “privato di tutela le lavoratrici in un momento particolarmente critico come quello della gravidanza e del rientro dalla maternità nel quale più facilmente sono a rischio di discriminazioni, in spregio al dettato costituzionale che riconosce valore sociale alla maternità”. Il carattere punitivo assunto dalla revoca della Consigliera nazionale per aver svolto le sue funzioni di garanzia non è sfuggito alla Commissione europea, che ha chiesto spiegazioni al governo. L’asserzione del preteso carattere fiduciario della nomina e della conseguente soggezione all’indirizzo politico di governo comporta un’evidente torsione delle funzioni dell’organismo, non più garante di diritti di rilevanza costituzionale e comunitaria, da assicurare anche nelle ipotesi di violazione commesse dalla stessa amministrazione, ma chiamato a farsi duttile interprete della volontà politica della maggioranza.
Questo stato di cose appare in palese contrasto con l’obbligo imposto dal diritto comunitario che nella direttiva di rifusione n. 2006/54 (articolo 20), impone agli Stati membri di istituire organismi di parità tra le cui competenze devono rientrare: a) l’assistenza indipendente alle vittime di discriminazioni nel dare seguito alle denunce da esse inoltrate; b) lo svolgimento di inchieste indipendenti in materia di discriminazioni; c) la pubblicazione di relazioni indipendenti e la formulazione di raccomandazioni su questioni connesse con le discriminazioni; d) lo scambio di informazioni con gli organismi europei corrispondenti. Il reiterato richiamo al requisito della indipendenza nell’attività di tali organismi sembra doversi interpretare nel senso che la direttiva impone un obbligo di risultato, consistente nel garantire l’assoluta indipendenza dai poteri di indirizzo e controllo del potere politico di governo, vincolando lo Stato ad astenersi da comportamenti che possano compromettere l’esercizio indipendente delle loro funzioni. Al formale avvio della procedura di infrazione contro l’Italia per non aver individuato, tra quelli esistenti, l’organismo con le caratteristiche imposte dal diritto comunitario, lo schema di decreto legislativo di recepimento della direttiva approvato dal Consiglio dei Ministri non sembra porre un sia pur tardivo rimedio. Esso, infatti, si limita ad apportare alcune modifiche alla composizione del Comitato nazionale di parità incrementando il numero dei componenti di alcune parti sociali e di estrazione ministeriale e assegnandogli funzioni di promozione del dialogo sociale e del dialogo con le organizzazioni della società civile al fine di promuovere la parità di trattamento, nonché di scambio di informazioni con gli omologhi organismi europei; mentre, riguardo alla consigliera di parità, chiarisce che la consigliera supplente agisce su mandato della effettiva e solo in sua sostituzione; inserisce la possibilità di rinnovo per non più di due volte dell’incarico; assegna alle competenze della Consigliera nazionale di parità lo svolgimento di inchieste indipendenti in materia di discriminazioni sul lavoro, di pubblicazione di relazioni indipendenti e la formulazione di raccomandazioni; prevede che la stessa faccia parte del Comitato per l’imprenditoria femminile e della Commissione Pari Opportunità presso l’omologo ministero. Sulla questione degli organismi di parità il provvedimento sembra rispondere all’esigenza di un recepimento puramente formale della direttiva, ignorando l’aspetto sostanziale di come assicurarne l’indipendenza, requisito indefettibile per l’esercizio effettivo della funzione antidiscriminatoria.
Bibliografia
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