Gli ultimi dati Istat non lasciano spazio a dubbi, l'Italia invecchia e invecchia in fretta. E se la vita continua ad allungarsi in un paese che si spopola, come sarà il nostro futuro prossimo?
Tre risposte per un
paese che invecchia
Sessantasette neonati ogni cento morti. Il bilancio demografico che l’Istat ci consegna ogni anno puntualmente ci mostra teste sempre più grigie e con esse ingrigisce le aspettative. Sì, è vero che la vita continua ad allungarsi: adesso l’aspettativa di vita alla nascita è di 81 anni per gli uomini, 85,3 per le donne.
Ma quel mese di vita in più che statisticamente conquistano le generazioni che ogni anno nascono, in quale paese lo vivono e lo vivranno?
Prima risposta: in un paese che invecchia e che si spopola. Il trend è iniziato cinque anni fa e da allora non si è fermato. Scende in numeri assoluti la popolazione italiana, 116.000 in meno nel 2019 rispetto all’anno prima. Questo dato include diverse variabili: le persone nascono, muoiono e si spostano nel frattempo. Se guardiamo solo al saldo nascite-morti, il bilancio è di meno 212.000. Appunto, 67 neonati ogni 100 morti. Scrive l’Istat che si tratta del più basso livello di ricambio naturale mai espresso dal paese dal 1918. In questi giorni è nelle sale 1917, il film che ci ricorda la carneficina della prima guerra mondiale che fu la causa di quel record negativo, nel 1918. E oggi? Se non una carneficina, qual è la causa?
Seconda risposta: le cause sono tante, e certo la più importante è l’onda lunga della denatalità dei decenni trascorsi. Ci sono meno donne in età fertile e dunque meno figli. Però insieme a questo dato strutturale, in qualche modo ineliminabile, ce ne sono altri su cui invece si può agire. Il record di “uscite” per emigrazione (164mila cancellazioni per l’estero, il livello più alto mai raggiunto da quando questa misurazione esiste) registra solo una parte del fenomeno dei cervelli e braccia in fuga, sul quale la politica non si attiva, impegnata invece a tempo pieno sull’altro versante, quello dell’immigrazione – peraltro in calo, dicono i numeri del 2019. Qui la “carneficina” si chiama economia, il lavoro che non c’è o è pagato male, le opportunità che non si aprono o non si vedono. Ma allora non si può fare niente, finché non si trova il modo di stimolare e far funzionare politiche per lo sviluppo?
Terza risposta: qualcosa si può fare, anche prima e fuori dalla agognata ripresa (che, hanno appena detto i numeri dell’Istat, è lontana e potrebbe vieppiù distanziarsi a causa delle turbolenze economiche da coronavirus). Basta guardare alle differenze nel tasso di fecondità tra le regioni, con Bolzano e Trento, Lombardia, Emilia Romagna e Veneto in testa.
Tutti posti nei quali non solo vanno relativamente meglio l’economia e il mercato del lavoro, ma è maggiore anche l’occupazione femminile. Da anni i numeri smentiscono il vecchio luogo comune: le donne che lavorano fanno più figli, non meno figli. Perché una famiglia monoreddito con figli ha molte probabilità di essere una famiglia povera, e per vari altri motivi. Puntare sul lavoro – a cominciare da quello delle donne – è l’unica strada per contrastare il grigio dei dati e delle previsioni demografiche.
Editoriale pubblicato sulla rete dei giornali locali del gruppo Gedi