I legami tra generazioni, l'invecchiamento, l'accudire, le risorse materiali e quelle affettive. Temi nostri, di tutti i giorni: li rileggiamo con il film "A simple life", di Ann Hui

Dalla cura di casa alla casa di cura

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Di una vita semplice racconta il film di Ann Hui (2011), presentato allo scorso Festival del cinema di Venezia.

È la vita semplice di Ah Tao, domestica da sessant’anni presso una famiglia cinese di Honk Kong. Aveva tredici anni quando è entrata in servizio. Con discrezione ha accudito, cucinato, curato, osservato, e vissuto con quattro generazioni.

Sembra una storia di altri tempi, eppure tocca temi di grande attualità: la cura, l’invecchiamento, il mantenimento dei legami transgenerazionali.

Di tutta la famiglia di cui Ah Tao si è occupata, non resta che Roger, produttore cinematografico di successo, un uomo quarantenne solitario che Ah Tao continua a servire con la gentilezza e la discrezione che la contraddistinguono (quasi una forma di devozione). Per lui sceglie il pesce al mercato, si preoccupa della sua dieta, lo aspetta a casa quando lui torna dai viaggi di lavoro. Ah Tao tiene simbolicamente accesa la luce nella sua casa, è una presenza affettiva costante e importante.

Capiamo meglio quanto lei sia effettivamente parte del mondo affettivo di Roger nel momento in cui, a seguito di un infarto, viene trasferita in una casa per anziani. E così si invertono le parti; è Roger a prendersi cura di lei. Può finalmente ripagare il debito che la sua famiglia ha avuto nei confronti di questa piccola donna eccezionale.

Attraverso il film, ci affacciamo alla realtà desolante di una casa di cura dove gli anziani vanno in attesa di morire. Le stanze sono celle, i bagni mandano cattivo odore ma ciò che rende tutto tremendamente triste è l’idea del non ritorno. Non si esce da un luogo come quello. Eppure Ah Tao riesce ad adattarsi, sa prepararsi alla morte, dolcemente. Roger va a trovarla regolarmente, la accompagna a passeggiare, la porta fuori a pranzo, la inviterà persino all’anteprima di un suo film, dove il mondo degli ultimi, dei dimenticati, si scontra brutalmente con lo star system, che per fede professa il mito della giovinezza, cancellando anche il solo pensiero della vecchiaia.

Le case di cura sono luoghi dimenticati, luoghi dei quali si parla poco, eppure diventano sempre più necessari a fronte dell’invecchiamento della popolazione. Inoltre pochi anziani conservano la dignità e la compostezza della protagonista del film e questo rende ancora più difficile il loro accudimento.

“A simple life”  tocca anche un altro argomento strettamente correlato a quello dell’invecchiamento ed è il legame filiale, inteso non come legame di sangue ma come legame di cura. È attraverso la cura che si costruisce il legame tre le persone; Roger può restituire una parte di ciò che ha ricevuto da Ah Tao e sarà questa la sua eredità. Ah Tao diventa il tramite della trasmissione intergenerazionale della famiglia; tutti i Leung possono dire di essere stati curati da Ah Tao, e attraverso di lei hanno un patrimonio comune di ricordi ed esperienze che altrimenti avrebbero perso. Ah Tao impedisce, attraverso la sua presenza, lo sgretolamento della famiglia e del mondo affettivo di Roger, entra a far parte del mito fondativo dei Leung, diventa la loro memoria storica e di fatto garantisce la continuità del loro legame. Questo tuttavia può avvenire soltanto attraverso l’amore che Roger tiene vivo fino alla fine. Se l’avesse lasciata nella casa di cura, magari anche pagandone le spese, ma senza occuparsi di lei, questa trasmissione non sarebbe avvenuta.

E questo è un altro aspetto cruciale. Il prolungarsi della vita minaccia di estinguere le risorse affettive ed economiche delle generazioni successive, trasformando quello che dovrebbe essere un accompagnare gli anziani alla morte in una sofferenza reciproca sempre più insostenibile, laddove la scarsità di aiuti e servizi costringe le famiglie a portare da sole il peso di questo faticosissimo (e spesso lunghissimo) passaggio di generezioni.

Il titolo del film appare dunque piuttosto come una provocazione, perché non c’è nulla di semplice nell’affrontare questa vicenda, che è ormai un’emergenza sociale ma di cui nessuno sembra aver ancora voglia di occuparsi seriamente.