Storie

Dalla stanza tutta per sé al riconoscimento nello spazio pubblico, il difficile percorso delle scrittrici raccontato da Daniela Brogi nel libro Lo spazio delle donne, uscito quest'anno per Einaudi. Un'intervista

Lo spazio
delle donne

8 min lettura

“Per tanto tempo le donne sono state abituate a sentirsi incapaci e senza talento. La memoria delle loro opere non ha contato. Per illuminare uno spazio così fuori campo non basta aggiungere nomi, né la soluzione è cancellare il passato. Piuttosto, servono altre parole e nuove inquadrature”.  È quanto si legge sulla copertina dell’ultimo libro di Daniela Brogi, Lo spazio delle donneuscito quest'anno nella collana Vele di Einaudi: un pamphlet agile che fornisce una bibliografia essenziale per chi volesse inoltrarsi nello studio del difficile percorso intrapreso dalle donne per un riconoscimento nella dimensione pubblica. 

Parlare dello spazio che le donne non hanno avuto, ci racconta Brogi "significa rimettere il discorso in prospettiva, restituendo anche a noi stesse la libertà di studiare, apprezzare e anche amare autori, per esempio, dell’Ottocento e del Novecento, che appartengono a un canone evidentemente patriarcale. Ma che, come succede nella grande letteratura, nella filosofia e nell’arte, riescono comunque a dare al lettore degli strumenti per liberarsi, fornendo delle promesse di felicità intorno al mondo. Se pensiamo al caso delle arti, l’avanguardia femminista è stata una grandissima rivoluzione novecentesca, eppure anche di quella non si parla mai".

Nel libro parti dal ricordare la necessità di adottare un paradigma diverso da quello patriarcale…

Secondo il paradigma patriarcale la presenza di un’autrice è eccezionale dentro un contesto di normalità dove il genio è quello maschile. D’altronde la quadrilogia di Elena Ferrante, L’amica geniale, nel titolo stesso che lei ha scelto, fa implicitamente i conti anche con questo. Se si ragiona in termini di "fuori campo", va tenuto presente, per esempio, che, seppure Leopardi abbia scritto delle poesie straordinarie, la sorella Paolina mai avrebbe potuto scrivere dei testi di quel livello, come del resto anche le sorelle di un altro poeta come Pascoli: la letteratura è piena di autori circondati di sorelle che hanno fatto da angeli del focolare. Queste donne non hanno mai potuto essere autrici non perché fossero inferiori, come si poteva leggere in qualche articolo di critica fascista, ma perché sono state messe nelle condizioni di non entrare mai nello spazio della creatività e della genialità. Quando qualcuna riusciva a farlo, la sua opera veniva disprezzata. Grazia Deledda resta l’unica autrice italiana che ha vinto un Premio Nobel per la Letteratura, ma sono pochi ancora ad aver letto un suo racconto o un suo romanzo. Ed Elsa Morante, che arriva a votare per la prima volta quando aveva più di 30 anni, è la stessa che poi per molto tempo, come anche molte fra le più geniali autrici della sua epoca, hanno rivendicato di voler essere uno scrittore, e non una scrittrice.

Essere bravi, allora, significava essere come un uomo.

Questa è una idea profondamente radicata nella storia. Ricordo che uno dei capolavori della Morante, La storia, quando uscì venne disprezzato, affossato, umiliato. La mia generazione non ha studiato questa scrittrice all’Università perché si sapeva già che non poteva appartenere ad un canone serio. Ci sono state donne che si sono formate spesso uscendo anche da un corso di Lettere senza aver mai studiato un’autrice, né una saggista.

Per questo hai sentito la necessità di stilare una bibliografia ,se pur parziale, a uso e consumo anche delle nuove generazioni…

Nella mia professione di docente mi sono resa conto che le mie studentesse, o comunque le persone giovani che volessero occuparsi anche di femminismo e di questioni di genere, erano spesso lasciate molto sole. Ho sentito per questo la necessità di dare loro un piccolo “protocollo di cura”: sono tanti i testi che mancano dalla bibliografia, ma ci tenevo a inserire dei riferimenti che aprissero quantomeno un percorso e facessero vedere che noi possiamo avere una cassetta degli attrezzi grazie alla quale liberarci da tutta quell’ignoranza che ci viene buttata addosso, una volta che cerchiamo di parlare in maniera seria delle questioni di genere.

Nel considerare quelli che tu chiami gli “spazi possibili delle donne”, ti avvali, come filo conduttore del discorso, di alcune figure emblematiche, come il recinto, l’abisso, l’interstizio, la mappa, il fuori campo attivo.

Nella costruzione di un nuovo linguaggio, era importante per me mettere a fuoco delle figure e delle situazioni spaziali emblematiche che restituissero visibilità a quello che è stato spesso oscurato negli anni. Immagini nate man mano che il lavoro di riflessione andava avanti. Il libro prende le mosse da alcuni temi, il primo dei quali riguarda la sottorappresentanza delle donne di cui la recente campagna politica ci ha dato testimonianza. Non è un caso che il paragrafo introduttivo del testo si intitoli L’elefante nella stanza, facendo proprio riferimento a questo tema nell’ambito del discorso pubblico. Si tratta di un vuoto di credibilità, di serietà, di considerazione. Ci sono tanti libri, lavori, vite, dietro di noi: una tradizione ricchissima che ci parla ma che purtroppo è stata silenziata. E a volte si ha la sensazione e il timore che non possa essere in grado di parlare anche alle generazioni future. In questo libro raccolgo e ripropongo cose che sono già state dette negli anni, costruendo però un paesaggio dove possano incontrarsi anche tipologie di persone e generi che spesso tendono a venire piuttosto separati.

Nel libro citi, fra le altre, Anna Banti, Armanda Guiducci, Ruth Bader Ginsburg, Carla Lonzi, Flora Tristan, Mary Wollstonecraft, Louise May Alcott, Emily Dickinson. E, naturalmente, Virginia Woolf.

A room of one’s own è stato sicuramente uno dei modelli ispiratori del mio libro: la scrittrice, indicando quello spazio, si riferisce a qualcosa di fisico però contemporaneamente anche a una dimensione metaforica: lo spazio che le donne hanno o non hanno avuto, o che potrebbero avere, non è soltanto lo spazio fisico, che pure è importante per ragionare sulle discriminazioni, ma è anche lo spazio che poi possono conquistare in termini simbolici e in termini prospettici.

Doris Lessing usa una espressione che tu ricordi nel libro: empty space. Lo spazio vuoto che, scrivi, “vale come ambiente liberato da tutto ciò che può ingombrare o distogliere”.

L’ansia di uno spazio vuoto è una tipica ansia di genere: possiamo ricostruire e capire come si possa essere formata, e come sia diventata così strutturale. In un mondo in cui lo spazio pubblico era solo lo spazio dove stavano gli uomini, lo spazio delle donne è stato sempre lo spazio delle outsider. E il diritto ad avere uno spazio proprio è sempre stato in qualche modo anche stigmatizzato socialmente. Il linguaggio aiuta moltissimo a capire anche le discriminazioni di genere. A livello di discorso comune la donna che si sistema è quella che si sposa, mentre l’uomo che si sistema è quello che trova un lavoro. Dentro uno scenario simile è difficile pensare di aver diritto allo spazio. Per una donna, avere per esempio uno studio dove concentrarsi, è in qualche modo qualcosa che si strappa a un mondo di cure, forse con un sottile senso di colpa, come se venisse sottratto all’attività ancillare, al servizio degli altri. Ecco: lo spazio delle donne è uno spazio dove si può pensare di liberarsi da questi pregiudizi. Anche per far sì che lo spazio dentro la casa e la famiglia, che le donne hanno costruito in maniera così creativa, sia uno spazio riconosciuto, valorizzato.

Nel libro parli del merito come retorica di dominio.

Credo ci faccia bene impossessarci di nuovo di un linguaggio che finalmente ci liberi dalla retorica delle frasi fatte usate dal maschilismo benpensante. Una di queste intorno al merito è “quando anche le donne se lo meriteranno anche loro avranno possibilità di …”. Si tratta di una affermazione molto paternalistica, che tiene sempre la persona subalterna nella sua condizione di subalternità. Ma soprattutto è una risposta retorica che maschera e occulta la realtà, che è fatta invece di dati storici, di circostanze precise, per cui le donne non hanno potuto studiare, non hanno potuto votare, non sono potute entrare dentro le università. Nel momento in cui tu consideri il mondo come un club per soli uomini, non è che puoi dire a chi è rimasto fuori dalla porta "anche tu potrai entrare qui se te lo meriti", perché il primo esercizio di libertà è passare tutti dentro quello spazio.

Nel libro ricordi sinteticamente alcune tappe dell’emancipazione femminile, dal diritto di voto (1946) alla legge sul divorzio (1970); dalla riforma del diritto di famiglia (1975) alla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro (1977) fino all’affermazione dello stupro come crimine contro la persona e non contro la morale pubblica (1996). Ma per le donne la strada per ottenere il proprio spazio nella dimensione pubblica appare ancora lunga.

Mancato riconoscimento e violenza possono formare delle dialettiche micidiali. Posso stabilire, per esempio, che la tua storia può essere al limite interessante soltanto in un certo ambito o alla luce di certi paradigmi. Se noi dedichiamo soltanto un panel dentro un festival alle opere delle donne, per esempio, questa può rivelarsi anche un’operazione ambivalente, che contiene il rischio involontario di riprodurre in buona fede quello che è un paradigma violento, che riconosce spazio all’altro purché l’altro stia nel perimetro che le è stato ritagliato.

Nel libro denunci anche il fatto che il femminismo, o, meglio, i femminismi, vengono ancora oggi guardati con un certo sospetto.

È vero: non si parla di femminismo, come se fosse una specie di malattia, o comunque qualcosa da cui prendere le distanze. Eppure, il femminismo è stata la rivoluzione politica più importante del Novecento, e ancora oggi escono libri scritti da storici che lo confinano in uno sparuto paragrafo. Quante donne, e prima di tutto le moltitudini, di operaie e contadine, di politiche e femministe, appartengono a questo spazio che è stato completamente rimosso, cancellato…

Ripartiamo dunque dal linguaggio?

Nel momento in cui ci si occupa delle donne è un po’ come se entrassimo nel territorio dell’ineffabile: tutte le parole che si pronunciano possono rischiare di diventare parole significative. La violenza di genere è spesso riprodotta proprio attraverso la retorica di genere, la retorica del sessismo, del patriarcato. Da cui occorre certamente liberarsi.

Leggi anche

Donna con libro. Autoritratto di Bianca Pitzorno

Riscrivere la storia per il futuro delle ragazze