Lettere a inGenere. L'educazione in svendita

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Educazione privata

Il mio intento non è solo informare, ma mettere in guardia.

Fare ordine, ridistribuire dignità, prima di tutto a me stessa, e poi a tutte le compagne e colleghe.

Fare il punto della situazione educativa, dei suoi cavilli burocratici, dei suoi intenti frammentati, dei diritti nascosti negli anfratti di cui nessuno si cura.

Sono un'educatrice scolastica, faccio questo lavoro da qualche anno. Un mestiere che ho scelto, che non mi è capitato tra le mani. All'inizio m'è parso di usarlo come banchina d'attesa mentre transitavo dall'assistenza educativa all'insegnamento delle mie materie. 

Su questa banchina d'attesa ci sono rimasta, perché nel tempo è diventata dapprima ponte, e poco dopo disvelamento: educare era quello che volevo fare, l'avevo sempre desiderato. Rimanere in prima linea, al lavoro come nella vita, è sempre stato il mio motore, non mi sono mai chiesta a che prezzo. Fino a oggi.

Quando un'educatrice parla del proprio lavoro, c'è sempre smarrimento negli occhi degli interlocutori. Questo avviene perché siamo invisibili, e nell'invisibilità è molto facile continuare lo sfruttamento a cui siamo sottoposte.

È un'invisibilità, la nostra, frutto di una violenza sistemica, di un potere che è più forte e dissimula, perché così facendo tiene lontani i riflettori da una situazione agghiacciante che tocca molti attori sociali – non solo educatori ed educatrici, ma anche tutto ciò che gravita intorno a loro: nel mio caso bambine e bambini, il sistema scolastico, la privatizzazione del sapere e delle competenze. 

Il tutto racchiuso in una bolla di confusione. Mi chiedo spesso cosa accadrebbe se fossimo in tante a farla esplodere, questa bolla.

Dopo due lauree, corsi di formazione, aggiornamenti, esperienze di vario tipo, il mio lavoro continua a valere nove euro lordi l'ora. Per questi nove euro lordi, io mi occupo di sostegno scolastico in scuole elementari, sono specializzata a lavorare con persone con autismo, e con loro faccio ciò che viene definita "integrazione scolastica": le affianco – insieme agli e alle insegnanti di sostegno – nella didattica e nelle relazioni. 

Mi occupo di essere un collante efficace fra le persone che mi vengono affidate e i gruppi classe. Le accompagno in gita, rendo le recite scolastiche inclusive, mi batto per usare un linguaggio comprensibile a tutti e a tutte, medio quando si litiga, aiuto se c'è da potenziare un gruppo in difficoltà, mettendo in campo le mie competenze culturali, oltre che psicologiche. 

Educo, tutto il giorno e tutti i giorni, e prima ancora che educare bambini e bambine, mi tocca anche educare i e le docenti, che nonostante si avvalgano della nostra preziosa presenza da ormai decenni, sanno ancora sabotarsi inseguendo la boria del palcoscenico-cattedra, tentando di soffocare la nostra figura e di lasciarci in un angolo. 

Magari con l'alunno troppo rumoroso e pieno di stereotipie, che, più che a vivere la classe, è incoraggiato a tacere e magari a uscire per i corridoi, così da non disturbare. 

Sappiate, genitori, che se tutto questo avviene sempre più di rado è grazie ai nostri incontenibili sforzi di lotta, senza i quali la parola "inclusione" sarebbe ancora e soltanto uno sbiadito miraggio. 

Dimenticate le classi ai margini della scuola dove la persona disabile veniva rinchiusa insieme a tutto il suo entourage – come del resto qualche nostro ministro poco lungimirante vorrebbe che fosse. 

Fare l'educatrice è molto di più: vuol dire scrivere "piani educativi individualizzati", assistere a gruppi operativi, dare continuità educativa, collaborare con colleghi e colleghe per offrire idee e spunti di riflessione a cui altrimenti non si arriverebbe, giacché la scuola è nata per essere fusione, incontro, team.

Tutto questo lo faccio per enti privati, per cooperative sociali ingaggiate dal Comune della città in cui vivo, che destina un monte ore stabilito in base alla gravità e alle esigenze del caso e manda gli educatori e le educatrici a svolgere servizi vari, tra cui, appunto, il sostegno scolastico, così che chi ne ha bisogno abbia una copertura totale: scuole pubbliche con risorse private, il disastro è servito.

L'anno 2023 si è chiuso con bilanci in utile per il 79% delle cooperative e con guadagni milionari, ma il mio lavoro e quello delle mie colleghe continua a essere pagato nove euro lordi l'ora.

Gli stessi nove euro lordi mi hanno spinta ad accettare più ingaggi, più lavori: stesso ambito ma competenze trasversali. Del resto, lo stesso Comune che permette tutto questo è anche uno di quelli che ha gli affitti più cari di tutta Italia, dove il costo della vita è spropositato, se paragonato agli introiti percepiti: sto parlando di Bologna.

Per uno degli enti (chiaramente privato) ho acquisito un ruolo mediamente importante. Un doppio stipendio, seppur contenuto, mi faceva arrivare con la cinghia meno tirata alla fine del mese, mi permetteva di investire quei pochi spiccioli in studio, nonostante spesso mi portasse a lavorare dodici o tredici ore al giorno. 

Questo lavoro me lo sono tenuto caro, e probabilmente l'immensa fatica a cui ho sottoposto me stessa, e la paura di non fare quadrare i conti, mi hanno spinta ad accettare l'inaccettabile: continue pressioni, telefonate a tutte le ore, la pretesa costante affinché io fossi sempre presente, formazioni non pagate, tacere mesta quando il mio superiore mi faceva battute a sfondo sessuale, silenzio angosciato quando quella volta, alle otto di sera, mi chiamò per chiedermi di andare a letto con lui per poi concludere che era tutto uno scherzo, magari per tirarsi fuori dal mio silenzio tombale, perché non riuscivo più a credere a ciò che mi stavo facendo. 

E ancora, scoramento e angoscia quando mi fece outing davanti ad altri colleghi, tutti maschi, tutti miei superiori. Non era il solo, mi dicevo, tutti i maschi in quella situazione si sentivano liberi di esprimere le loro più recondite fantasie nascondendosi sotto il mantello smunto della goliardia. 

Mi trattenevo con fatica tutte le volte che mi faceva complimenti in pubblico e negli orari di lavoro, trattenevo il fiato e mi dicevo che potevo e dovevo sopportare: lavorare mi serviva, crescere lì dentro era il concetto più vicino all'avanzamento di carriera a cui mi fossi mai avvicinata. 

Volevo provare a tutti quanti, lì dentro, quanto fossi preparata e capace, dimostrare che avrei potuto cambiare le cose, rendere i loro servizi educativi più all'avanguardia, meglio pensati. 

Mi sembrava che tutto passasse per il mio corpo, attraverso il mio corpo, e finché proprio questo corpo fosse rimasto feticcio immaginario di chi mi comandava, tutto sarebbe andato per il meglio. 

Il mio stesso corpo, però, mi mandava segnali inconfondibili e dentro di me tutto si erodeva fino a sgretolarsi. E per quanto i salari fossero ai minimi storici, e fuori, nella concretezza del mondo, tutto costasse più di quanto io potessi permettermi, cominciai a rendermi indisponibile e indisponente. 

Cominciai a disobbedire senza rendermi conto di star palesando un diniego, parlando di argomenti necessari ma non concordati in classe, battendo i piedi e lamentandomi tutte le volte che vedevo calpestato un diritto, pretendendo orari e ritmi più consoni, spegnendo il cellulare quando il mio turno si era concluso, negandomi alle cene di gruppo – vetrina di coesione quasi cameratesca, strumento di controllo proprio sui corpi femminili, che potevano finalmente essere ammirati e magari toccati dal superiore di turno. 

In poco tempo, il mio declino lavorativo mi si faceva lampante, io stessa ne ero la fautrice più accanita. Volevo che mi odiassero, che mi temessero, perché sapevo che sarebbe arrivato il giorno in cui avrei pungolato la bolla fino a farla esplodere sulle nostre teste. 

Da questo gioco al massacro sono arrivate le dimissioni, urlate un pomeriggio di qualche mese fa al telefono, e prima ancora delle dimissioni ne è venuto fuori un demansionamento, a cui nessuna delle persone interpellate è mai riuscita a corredare spiegazioni logiche. 

Semplicemente, il corpo – sempre lui – ha preteso con una forza di cui credevo di non disporre di ribellarsi. 

Tutto ciò avveniva in un contesto educativo in cui i diretti responsabili allevano un quantitativo spaventoso di minori, in più ambiti, per giunta. 

Questo articolo ha la pretesa di essere solo l'inizio, una sorta di allarme che vibra in città per allertare le compagne rimaste, impaurite come me dal precariato e della povertà, schiacciate da un sistema complesso e di cui dobbiamo scrivere, di cui dobbiamo parlare perché è giunto il momento che il nostro paese sappia di chi sono le mani che gestiscono il futuro dei propri figli e delle proprie figlie.

Perché parlarne diventi strumento di rivoluzione, perché informare ci dia la possibilità di avere scritto nero su bianco cosa voglia dire il nostro lavoro e a cosa ci espongano, alle volte, l'incertezza e la debolezza economica.

La privatizzazione dei sistemi educativi, che arriva nelle scuole pubbliche tramite appalti al ribasso, nasconde una massa informe di problemi e arbitrarietà, pochi controlli, sfruttamento e nessuna tutela verso le lavoratrici – che sono solo corpi, da spremere fino alla deflagrazione.

Alessandra Buttiglieri, educatrice a Bologna