Doris Salcedo, scultrice colombiana considerata tra le pù importanti del suo tempo, e la straordinaria capacità di rappresentare l’irruzione nella sfera domestica della violenza politica

Scarpe malinconiche - Doris Salcedo

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Considerata tra le scultrici più importanti della sua generazione, la colombiana Doris Salcedo, nata a Bogotà nel 1958, si è imposta negli ultimi decenni per la straordinaria capacità di rappresentare con drammatica evidenza, accanto a tematiche legate all’emarginazione e al progressivo inquinamento del pianeta, l’irruzione nella sfera domestica della violenza politica. L’artista si è spesso servita di capi di vestiario e mobili di uso comune rovesciandone il significato immediato al fine di trasformarli in oggetti intrisi di dolore e ormai non più utilizzabili. 

Salcedo si era fatta notare fin dalla fine degli anni ’80 con opere come l’istallazione in ricordo di un traumatico eccidio di lavoratori nelle piantagioni di banane - Senza titolo (1988-90) -, fatta di pile di camicie bianche stirate e inamidate, in ordine una sull’altra, sistemate ad altezza diversa, perforate da lunghi tubi di ferro. Poco dopo ottenne una attenzione ammirata da parte di pubblico e critici per il lavoro intitolato Atrabiliarios [= irascibili] dedicato alle migliaia di persone morte e sequestrate nel corso dei regimi militari latinoamericani; attualmente in mostra al Guggenheim e al MoMa di New York, presente anche in altre città del mondo. Tra il 1992 e il 1997 Salcedo ha incontrato parenti dei desaparecidos colombiani e ascoltato i racconti di come la loro vita quotidiana si alimenti dell’inevitabile rapporto con i vestiti e gli oggetti lasciati dietro di sé da mariti, figlie, fratelli. Ha chiesto di poter utilizzare scarpe appartenute a donne scomparse e le ha trasformate in melanconici quadri mnemonici destinati a musei e gallerie: lungo le pareti sfila una lunga serie di contenitori rettangolari dentro ciascuno dei quali sono collocate le scarpe, che offrono alla vista una sagoma opaca, poiché sono ricoperte di budella di bue cucite al muro tutto intorno con filo chirurgico. “Quando una persona scompare – ha scritto Salcedo – ogni cosa rimane intrisa della presenza di quella persona. Ogni singolo oggetto e ogni spazio diventa un ricordo dell’assenza, come se l’assenza fosse più importante della presenza.” L’impossibilità del lutto in una situazione di assenza dei corpi viene risolta dall’artista attraverso la proposta di una strategia della memoria articolata mediante un processo di sostituzione malinconica con cose indossate dalle persone scomparse. 

Altrettanto importanti sono, dagli anni ’90 in poi, gli armadi – Senza titolo - impossibili da usare perché fatti con parti incastrate di cemento armato; suppellettili domestiche chiuse che contribuiscono a creare uno “spazio negativo” nel contesto in cui le uccisioni violente sono la principale causa di morte dei colombiani. Tavoli e sedie si trovano al centro di opere come Plegaria muda, titolo della esposizione presso il Maxxi di Roma nel 2013, nella quale sono disposti in ordine irregolare centoventi tavoli sovrapposti, alcuni uniti insieme, e strisce di fili d’erba che spuntano qui e là dai punti di giuntura. Alla ottava Biennale Internazionale del 2003 a Istanbul, l’artista aveva sfruttato lo stretto spazio tra due edifici nel centro della città rimasto vuoto dopo la scomparsa di un vecchio stabile, per costruire un immenso mucchio di 1550 vecchie sedie di legno – segno di assenza e di desiderio di contatto - con lo scopo di creare “una topografia di guerra” aldilà di specifici eventi concreti; omaggio per tutte quelle vittime anonime e senza voce. 

Una vera e propria consacrazione di pubblico e di critica ha meritato nel 2007 l’opera spettacolare e profondamente coinvolgente ideata per la Tate Modern di Londra: Shibboleth. Sistemata nell’immensa sala delle turbine all’ingresso dell’edificio, l’istallazione consiste in un’ampia crepa che attraversa il pavimento e spacca la terra. Questa profonda fenditura è lunga 167 metri; viene descritta dall’artista come una ferita aperta tra nord e sud, lacerazione lasciata dal razzismo, dal colonialismo, dalle politiche neo-liberali. “… rappresenta i confini – spiega l’artista - l’esperienza degli emigranti, della segregazione, dell’odio razziale. È l’esperienza del terzo mondo che arriva nel cuore dell’Europa”. Si tratta anche della ripresa – nel titolo – di un termine biblico, usato da Paul Celan nella poesia successivamente commentata da Derrida in un saggio del 1984 dello stesso titolo: parola che allontana e avvicina a un tempo, che separa e identifica, denuncia e trae in salvo. Shibboleth non può avere un significato unico: allo stesso modo si presenta la fenditura creata da Salcedo, composta di due bordi che si aprono e si richiudono sul pavimento, si allargano e si restringono  come ferite aperte e superfici ostruite, le terre squarciate e gli sbarramenti: i luoghi di oggi.