L'astensionismo femminile e maschile, ormai sullo stesso piano, sono diventati una scelta politica precisa. Un'indagine dell'andamento negli ultimi decenni e un confronto con la grande astensione delle recenti amministrative a Roma
Anni Novanta: donne e uomini uguali davanti al voto? Era questo l’interrogativo quasi retorico di uno dei capitoli del nostro libro (Dove batte il cuore delle donne? Voto e partecipazione politica in Italia, Laterza 2012). A distanza di poco più di un anno dall’uscita del saggio, guardando ad alcuni dati di elezioni comunali egualmente si potrebbe dire rispetto al massiccio fenomeno dell’astensione dal voto. Laddove nei decenni passati l’astensionismo ha mantenuto una dimensione di genere più o meno marcata che ha visto le donne astenersi dal voto in misura maggiore rispetto agli uomini, a leggere i dati che arrivano dall’ultima tornata elettorale delle amministrative a Roma, il corpo elettorale va ora comportandosi in maniera omogenea, confermando una tendenza che si stava concretizzando già negli ultimi anni.
Prima di entrare però nello specifico dei dati, il fenomeno dell’astensione va letto per come si è andato modificando nel tempo, fino a giungere ad essere, ormai da qualche tempo, un’opzione tra le altre nel “gioco” elettorale. Un’opzione interamente politica. Chi oggi si astiene – a parte la quota di astensionismo “fisiologico” dovuta all’età anziana e che dunque riguarda assai le donne - invia infatti un messaggio fortemente critico rispetto all’offerta elettorale che gli o le è stata proposta. È in un certo senso questo il motivo, insieme all’analogo comportamento di altre democrazie che conoscono da molti più anni di noi alti tassi di astensionismo, per il quale diversi commentatori e politologi hanno ridimensionato l’allarme astensione lanciato da molti subito dopo la recente tornata amministrativa. Lo ha ricordato Piergiorgio Corbetta , dell’Istituto Cattaneo, disegnando l’astensione dal voto come fenomeno a crescita costante da decenni; così ha argomentato pure Roberto D’Alimonte che ha ravvisato anche il benefico effetto del calo del voto di scambio, e Piero Ignazi, sulla rivista de il Mulino, ha aggiunto che anche “il timing conta” e che più si va a votare meno si vota.
Se si va a ritroso – ma bisogna arretrare di molti decenni - così non è stato. L’Italia e le donne hanno conosciuto alti, altissimi tassi di partecipazione elettorale: il periodo tra il 1953 e il 1963 può essere definito come il decennio aureo della partecipazione politica delle italiane, essendo ancora il voto investito dal sentimento del dovere e della conquista, ancora recente, di un diritto.
Sul finire degli anni Settanta anche l’Italia però cominciò ad allinearsi ad altre nazioni occidentali e a vedere calare la partecipazione, secondo una dinamica di genere che vide le donne allontanarsi prima dai seggi elettorali. Dal 1979 in poi e almeno fino al 2001 la forbice di genere si è andata divaricando, sull’onda di una più precoce “stanchezza del voto” da parte delle donne, legata alla crisi delle organizzazioni di massa e all’affievolirsi di quel sentimento religioso che tanto aveva pesato negli orientamenti politici femminili. All’opposto, in quegli anni, potrebbe avere giocato un suo peso a favore dell’astensionismo anche la critica radicale, che arrivava dal movimento femminista, alla politica delle istituzioni, costruite sull’esclusione delle donne. Gli anni Ottanta, l’epoca del riflusso nel privato, hanno consolidato questo atteggiamento, mentre dagli anni Novanta si fa strada la tendenza alla quale si può far risalire il comportamento astensionista di oggi. Tramontata infatti l’epoca della sanzione amministrativa del non voto, l’astensione diventa sempre di più una facoltà a fasi alterne: è l’intermittenza, come la chiama Dario Tuorto (Il significato politico dell’astensionismo in Italia: una smobilitazione punitiva? “Regione Toscana Osservatorio elettorale” Quaderno 64, 2010, p 3), che ha il segno di una scelta consapevole di elettrici ed elettori nell’entrare o uscire dalla scena del voto.
La fotografia di metà degli anni Duemila ci dice anche quanto, dentro l’astensionismo femminile, abbiano rilievo i parametri della condizione professionale (chi lavora per il mercato, oltre che in casa svolgendo compiti di cura domestica, vota di più) e dell’età. La partecipazione politica declina temporalmente prima fra le donne che fra gli uomini (e le prime vivono più a lungo): nelle elezioni politiche del 2006 l’astensionismo femminile nella fascia d’età dai 60 anni ai 70 supera quello maschile del 3,7% e addirittura del 17,9 dai 70 anni in su, mentre nelle coorti centrali già non si vede divario di genere e addirittura fra i più giovani, il rapporto si mostra invertito con una tendenza delle donne tra i 20 e i 40 anni a votare più degli uomini.
Questi ultimi dati riportati dal nostro lavoro sembrano dunque essere coerenti con quelli relativi alle recentissime elezioni romane (ma anche con il grafico che analizza per genere l’andamento dell’astensionismo a Roma dal 2001 a oggi). Secondo la tabella Differenza percentuale di astensioni 2008-2013, l’astensionismo cresce in maniera simile tra donne e uomini e le differenze calcolate sui municipi (a parte l’ottavo che induce a pensare a specifiche motivazioni astensioniste di ordine locale) non sono tali da identificare comportamenti dissimili per genere. Se questo è vero e se l’alto tasso di astensione registrato a Roma come in molte altre città fa tramontare anche l’idea che le elezioni del sindaco mobilitino maggiormente il corpo elettorale, potremmo dire dunque di essere davanti ad una platea di elettrici ed elettori egualmente critici ed egualmente stanchi ma non lontani dalla politica, come abbiamo ricordato, e che di elezione in elezione giocano queste loro valutazioni in maniera differente. Se poi dentro le ragioni di questa stanchezza ci sia anche la lentezza del cambiamento della politica per quanto riguarda la presenza paritaria delle donne come la persistente incapacità di leggere il ritardo italiano in chiave di genere (lavoro, welfare, pari opportunità ecc.) è altra questione che non possono i nudi numeri svelare, ma che sarebbe utile indagare proprio a partire dalla buona prova che ha invece dato la prima sperimentazione della doppia preferenza. Ampliare e rendere più equa la facoltà di scelta, insomma, potrebbe forse anche riavvicinare alle urne chi oggi consegna con il non voto la sua arrabbiata convinzione che niente, là dove si decide, possa cambiare.
(Nella foto donne al voto, per la prima volta in Italia, nel 1946. L'immagine è tratta dal numero monogradifo "Una donna, un voto" della rivista Generis dell'Università di Pisa)