Politiche

Che effetto avrà la rivoluzione digitale sulla partecipazione delle donne al mercato del lavoro? I dati Ocse forniscono un ritratto del futuro che ci aspetta

Il futuro delle
donne nel digitale

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Foto: Unsplash/ Chris Barbalis Hal Gatewood

In queste settimane si è tornati a parlare – soprattutto grazie al video dei due robot quadrupedi della Boston Dynamics che collaborano per evadere da una stanza  della rivoluzione digitale e dell’impatto che questa avrà sull’occupazione. 

La rivoluzione digitale in corso vede contrapposte due categorie di interpreti che potremmo identificare, prendendo in prestito la celebre definizione di Umberto Eco, gli apocalittici e gli integrati. Qualcosa che del resto era già avvenuto in occasione delle tre rivoluzioni industriali precedenti  che hanno visto protagoniste la macchina a vapore prima, l’energia elettrica poi e infine l’informatica e le telecomunicazioni. In tutti e tre questi snodi fondamentali della nostra storia recente le persone hanno sempre temuto le macchine, ma al contempo sono sempre rimaste affascinate dalle loro potenzialità.

Cosa dicono i dati? Spesso sono discordanti rispetto alla natura dell’impatto della digitalizzazione sull'occupazione. Tutti gli studi, tuttavia, concordano nel prevedere un enorme cambiamento in arrivo. Per citarne solo alcuni, la European House Ambrosetti ha previsto 135.000 posti vacanti nel settore dell'Information and Communications Technology (ICT) entro il 2020, l’osservatorio Startupper’s voice ha documentato che già oggi il 40% delle startup italiane ha avviato ricerche per professionisti digitali senza trovare profili adeguati ai requisiti richiesti, il World Economic Forum ha aperto il suo celebre report The future of jobs and skills affermando che il 65% dei bambini che iniziano adesso il loro percorso scolastico svolgerà lavori che, ad oggi, ancora non esistono.

Data la portata del cambiamento di cui stiamo parlando sarebbe importante cominciare a ragionare fin da subito sulle opportunità e sui rischi che questo comporterà per le donne e per l’occupazione femminile. L’Unione Europea ha provato a farlo nel 2013 grazie allo stimolo e all’impegno dell’allora Commissaria per l’Agenda Digitale, Neelie Kroes, ma – purtroppo – a quel lavoro si è scelto di non dare seguito, fatta eccezione per eventi sporadici come il Digital Skills Award, il Girls in ICT Day (che si celebra ogni 26 aprile) e il Premio europeo per le donne innovatrici. 

Lo scorso anno l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo economico (Ocse) si è occupata di indagare questa particolare prospettiva sulla rivoluzione digitale, che ha messo insieme una serie di dati interessanti nel suo rapporto Going digital: the future of work for women. Questa analisi si propone di rispondere alla domanda “la trasformazione digitale rafforzerà o indebolirà la posizione delle donne nel mercato del lavoro?” analizzando principalmente due variabili che saranno introdotte dalla digitalizzazione: l’automazione e la maggiore flessibilità nelle modalità e negli orari di svolgimento del lavoro.

Per quanto riguarda la flessibilità, l’Ocse conferma che può rappresentare una grande alleata delle donne, come evidenziato dai dati citati: innanzitutto, i paesi Ocse che hanno percentuali più elevate di donne che lavorano da casa presentano anche tassi di occupazione più alti tra le donne madri. In secondo luogo, è stata rilevata una riduzione del divario retributivo di genere nei settori dove l’organizzazione del lavoro è più flessibile.

Tuttavia, questi potenziali benefici sono contrastati dal rischio di una diminuzione della qualità del lavoro, sia in termini di aumento della precarietà che del numero di ore effettivamente dedicate al lavoro. La possibilità di lavorare da casa, infatti, se non viene gestita in maniera corretta da lavoratore e datore di lavoro, può – paradossalmente – complicare la separazione tra vita privata e lavoro, invece di agevolarne la conciliazione.

Secondo l’Ocse sono tre le variabili che portano la bilancia a pendere verso i benefici o verso i rischi del lavoro flessibile: la volontarietà o meno dell’adozione di queste misure, il fatto che esse siano accompagnate da una maggiore o minore autonomia nell’organizzazione del lavoro e che procedano di pari passo con una maggiore o minore sicurezza del posto di lavoro. 

Nel caso dell’automazione, invece, l’Ocse tenta in primo luogo di ridimensionare gli allarmismi relativi alla perdita di posti di lavoro: secondo le stime dell’istituto, infatti, solo il 9% dei lavori nei paesi Ocse sono ad alto rischio di automazione, mentre un ulteriore 25% potrebbe cambiare significativamente poiché una percentuale tra il 50% e il 75% delle proprie funzioni potrebbe essere automatizzata.

Il rapporto specifica però che la propensione all’automazione non equivale in maniera diretta alla perdita di posti di lavoro, per tre ragioni principali: la prima è che l’adozione delle nuove tecnologie è, spesso, lenta per ragioni di carattere economico, sociale e anche legale. Si pensi alla tecnologia della macchina senza autista, già disponibile da tempo ma ancora non diffusa tra la popolazione. La seconda ragione è che la storia dimostra che nelle fasi di grandi cambiamenti i lavoratori si sono adattati cambiando le mansioni che svolgevano, aggirando così la disoccupazione tecnologica di massa. Infine, vi è l’effetto che l’innovazione innesca sul lungo periodo, dando luogo ad aggiustamenti automatici che contrastano la disoccupazione creata nel breve periodo, come ad esempio la produzione di nuovi beni e servizi e un più alto consumo dei prodotti non digitali a seguito di una diminuzione dei costi di produzione e, dunque, dei prezzi.

L’Ocse procede a una rapida analisi dell’occupazione maschile e femminile nei vari settori, combinandola con la propensione di questi stessi settori all’automazione del lavoro e alla perdita di posti di lavoro, per arrivare alla conclusione che non vi è una rilevante differenza di genere.

Nella sopravvivenza a questo cambiamento avranno un grande peso le competenze. Solo il 5% dei lavoratori in possesso di una laurea corre un alto rischio di perdere il proprio lavoro a causa dell’automazione, percentuale che aumenta al 40% per i lavoratori con un diploma superiore. A prima vista, una buona notizia per le donne, che nei paesi Ocse costituiscono oramai la maggioranza dei laureati.

Due tipologie di competenze che acquisiranno valore con la digitalizzazione saranno le cosiddette soft skills, da una parte, e le competenze specialistiche in campo ICT, dall’altra. Mentre per le prime l’Ocse rileva una sostanziale equa distribuzione tra uomini e donne, vi è un’importante differenza di genere nelle seconde: attualmente, le possiedono il 5,5% dei lavoratori a fronte del solo 1,4% delle lavoratrici.

Qual è, dunque, il responso dell’Ocse in merito all’impatto che la digitalizzazione avrà per l’occupazione femminile? Come spesso accade in merito a fenomeni così complessi e pervasivi, a essere positivo o negativo non è il fenomeno in sé ma le politiche che si prefiggono di gestirlo.

L’Ocse, quindi, ribadisce che la trasformazione digitale aprirà delle opportunità per ridurre gli ostacoli che le donne affrontano nell’accesso e all’interno del mondo del lavoro. Tuttavia questo non avverrà automaticamente e, se non saranno predisposte politiche adeguate, gli ostacoli potrebbero addirittura aumentare.

L’Ocse chiude il suo rapporto accennando una serie di politiche che renderebbero la rivoluzione digitale un’opportunità per le donne e non un rischio: promuovere la partecipazione femminile alle Stem; rimuovere le barriere per l’apprendimento permanente; risolvere il divario di genere nell’accesso alle – e nell’utilizzo delle – nuove tecnologie; promuovere modalità flessibili di lavoro utilizzando le nuove tecnologie e, al contempo, assicurare che tali modalità non abbassino la qualità del lavoro; assicurare che donne e uomini ricevano la medesima attenzione nell’implementazione di politiche a sostegno dei lavoratori delocalizzati; adattare i sistemi di protezione sociale alle nuove forme di lavoro. 

La maggior parte di queste proposte non richiede una grande disponibilità di budget ma, semplicemente, competenza e organizzazione nella progettazione delle politiche pubbliche. E la volontà politica di passare dai reiterati impegni a favore dell’occupazione femminile alla realizzazione di strumenti che la rendano effettivamente possibile.