Per l'azienda il costo della lavoratrice in maternità non è uno stereotipo, ma un problema reale. E finché le cose non cambiano, sono le donne a subirne le conseguenze. Ecco perché la copertura va portata al 100% a carico dell'Inps
Poiché nella vita tutti recitiamo molte parti in commedia, con la maternità ho avuto a che fare, nel mio piccolo, anche come “datore di lavoro”: della mia colf, o meglio della colf che io e mia sorella cerchiamo di far accettare ai nostri genitori, infaticabili ottantanovenni, disposti a tollerarla per sole otto ore a settimana. Per raggiungere l’orario minimo di 24 ore settimanali, Marina è stata assunta “in condominio” con altre due amiche, dividendo fra noi gli oneri previdenziali annessi e connessi.
Nei mesi scorsi lei è andata in congedo di maternità. Nel 2010 ha lavorato per noi sei mesi, un mese ha fruito delle ferie fin lì maturate e cinque mesi dell’aspettativa obbligatoria, come è suo diritto. Ci hanno detto, al sindacato dei datori di lavoro domestico che ci assiste, che siamo tenute a pagarle per l’intero anno tredicesima, ferie e Tfr, e non solo per i mesi che ha lavorato per noi.
Quello che io sapevo da sempre, e che tutti ripetono, è che l’Inps paga alla lavoratrice un’indennità pari all’80% del salario. Anzi, secondo un’autorevole fonte istituzionale, il recente Rapporto del Cnel “Il lavoro delle donne in Italia" (pag. 47), “la legislazione italiana a tutela della maternità è molto avanzata, forse una delle migliori nell’Ue ... poco si è fatto per abbattere lo stereotipo per cui una donna con figli rappresenta un costo troppo elevato per le aziende. Giova ricordare che i costi del congedo obbligatorio per maternità e per congedi parentali sono a totale carico della fiscalità generale”. Ora, nel mio caso non mi pare che i costi siano a totale carico della fiscalità generale: se così fosse, avrei dovuto pagare tredicesima, Tfr e ferie solo per i mesi in cui Marina ha lavorato da me, e non per l’intero anno. In ogni caso, al contrario di quello che scrive il Cnel, la maternità non è finanziata dalla fiscalità generale, ma dai contributi, cioè dalle imprese e dai lavoratori dipendenti che li pagano.
Sulla materia indubbiamente regna un po’ di confusione. Secondo la ricerca dell’Isfol “Maternità, lavoro, discriminazione”, disponibile sul sito del ministero del Welfare e pubblicata da Rubbettino (2006), alla lavoratrice italiana spetta “il 100 % (e non l’80%) della retribuzione per tutto il periodo di congedo”, senza specificare a carico di chi gravano i costi. La fonte è una scheda comparativa dell’Inail (2002) riportata nel capitolo “Maternità, lavoro e tutele: un flash internazionale” (pag. 173).
Un'altra autorevole fonte, la ricerca della SDA Bocconi pubblicata nel libro “Maternità quanto ci costi?” (cfr. qui i due allegati[1]), riporta (a pag.48) una stima elaborata da Alessandra Casarico e Paola Profeta sulla parte di costo che rimane a carico delle aziende private (“parte” che dunque esisterebbe, contrariamente a quanto afferma il Cnel). A partire dal dato certo del costo sostenuto dall’Inps nel 2006 e nell’ipotesi che tutte le aziende industriali e dei servizi integrino alla lavoratrice il 20% che manca (integrazione prevista solo in alcuni contratti collettivi, come si specifica subito dopo), l’importo “massimo” erogato dalle aziende si aggirerebbe sui 443 milioni di euro, pari allo 0,5% della spesa complessiva per contributi sociali: una somma certo non enorme, ma che andrebbe distribuita sulle sole lavoratrici dipendenti in maternità (ammesso che fossero 300 mila, si sarebbe trattato di un extracosto di circa 1.500 euro per ciascuna).
Il fatto è che la parte di costo a carico dell’impresa esiste, ma non è solo l’integrazione del 20% presa in considerazione dalla ricerca della Bocconi, perché comunque, per tutti i datori di lavoro, rimane l’obbligo di versare integralmente il salario indiretto (tredicesima, ferie, Tfr, scatti di anzianità maturati nel periodo di assenza), obbligo previsto non dal contratto, ma dalla legge. La norma che lo prevede è l’art.22, comma 3, della legge 151 del 2001 “Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità”, che recita: “i periodi di congedo di maternità devono essere computati nell'anzianità di servizio a tutti gli effetti, compresi quelli relativi alla tredicesima mensilità o alla gratifica natalizia e alle ferie”. Teniamo conto che, in quanto legge, questa norma è ancor più vincolante di qualsiasi contratto collettivo. E che spesso il datore di lavoro deve assumere un sostituto, al quale è tenuto a pagare, per lo stesso periodo, tredicesima, ferie e Tfr.
Per misurare la dimensione di questo onere, faccio due conti molto grossolani. Il salario annuo è composto, oltre che dalle 11 mensilità (salario “diretto”) che compensano direttamente il lavoro prestato per 11 mesi, anche da altre componenti di salario “indiretto”, grosso modo equivalenti ad altre tre mensilità: ferie, tredicesima e Tfr, per un totale di 14 mensilità (11+3).
Se facciamo il caso di una colf (ma il discorso vale per qualsiasi lavoratrice dipendente) che prenda 1.000 euro netti al mese, il suo salario annuo sarebbe quindi di 14 mila euro. Spalmando il salario annuo sui 12 mesi dell’anno, si ottengono 1.167 euro al mese. E’ questo il salario “globale” (art. 23 della legge 151) su cui l’Inps paga alla lavoratrice l’indennità pari all’80% (nell’esempio 933 euro).
In più il datore di lavoro è tenuto a pagare i ratei di salario indiretto corrispondenti ai 5 mesi di astensione obbligatoria: circa 167 euro al mese fra tredicesima e ferie, che lei continua a maturare anche durante l’aspettativa, e non gliele paga l’Inps. In più devo accantonare il Tfr, “come se si trattasse di malattia”, mi dicono all’Inps. Con i miei 167 euro, lei arriva a 1.100 euro, che non sono ancora 1.167, ma comunque ci si avvicinano molto. Prenderebbe quindi più dell’80%, quasi il 95%, grazie al contributo del datore di lavoro. Contributo che ovviamente danno solo i datori rispettosi dei loro obblighi e soprattutto bene informati. E non è facile esserlo, perché se si consulta il sito dell’Inps alla voce “congedo per maternità alle lavoratrici dipendenti” sfido qualsiasi datore di lavoro volenteroso a districarsi nelle 28 pagine di normativa.
Devo dire che, essendo da sempre partecipe del “pregiudizio favorevole” enunciato dal Cnel, sono caduta dalle nuvole quando mi hanno spiegato i miei doveri di datrice di lavoro, e non ci volevo credere. Ho quindi cercato in giro conferme, e purtroppo le ho ricevute. Purtroppo non tanto per me, ma perché risulterebbe confermato che per l’azienda il costo della maternità (e qui tralascio i costi organizzativi, che si aggiungono al puro costo retributivo) non è solo uno stereotipo, ma un problema reale, e credo che non dobbiamo affatto ignorarlo. Non è giusto per le aziende, e soprattutto non è conveniente per le donne, che siano le aziende stesse a pagare una parte dei costi, anche perché, finché il problema esiste, alla fine saranno le donne a subirne le conseguenze.
La convinzione che mi sono fatta è che la copertura dell'indennità deve essere portata al 100%, a totale carico dell'Inps, mentre il datore di lavoro dovrebbe essere scaricato di tutti i costi relativi ai periodi di congedo.
Anche il congedo di paternità obbligatorio, che oggi ci sembra tanto difficile da ottenere, potrebbe essere introdotto da subito, a costo zero, semplicemente redistribuendo fra madri e padri una parte dell’attuale congedo di maternità, come ha dichiarato Susanna Camusso al convegno di “Pari o dispare” del 19 gennaio scorso, dichiarazione che è sfuggita a tutti i giornalisti presenti.
Due modi per ridurre il "costo in più" di cui le lavoratrici madri sono ancora portatrici per chi le assume. A quando una proposta di legge?
[1] La ricerca della Bocconi è peraltro focalizzata sui costi organizzativi connessi alla maternità, costi che sono certamente la parte preponderante, con la finalità di orientare le aziende ad affrontarli nel modo migliore, diffondendo alcune best practice.