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Tra cura delle relazioni, lavoro domestico e mansioni di tipo parainfermieristico, quella della badante è una figura professionale e sempre più specializzata che necessita di un riconoscimento formale 

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Foto: Flickr/Bournemouth Borough Council

Badante: una terminologia diffusasi una quindicina di anni fa per definire le persone che si prendono cura di anziani. Frutto di una trasformazione della figura tradizionale della colf, in risposta al bisogno crescente - a causa del prolungamento della vita - di assistenza privata alle persone anziane. Una trasformazione che ha visto come protagoniste le lavoratrici straniere.

Ma come si caratterizza il loro lavoro? Possiamo definirlo una vera professione? E in che relazione sta con le altre professioni legate ai servizi di cura?

Da una ricerca promossa dalle Acli Colf (Viaggio nel lavoro di cura, appena uscito per Ediesse) con nove focus group in diverse regioni e interviste a 867 assistenti familiari, emerge uno spaccato interessante su un segmento del mercato del lavoro tanto indispensabile nella realtà delle famiglie quanto poco considerato nelle statistiche e nelle normative (si pensi a pensioni, lavori usuranti, riconoscimenti professionali…). Non è un caso che, nonostante sia più corretto definirle "assistenti familiari" il lessico prevalente sia quello di "badanti". Lo stesso Inps ha adeguato solo negli ultimi tempi tale terminologia. Ma quali sono le mansioni che svolgono le badanti, con quali responsabilità e con quale grado di autonomia? E con quale grado di preparazione? Con quanta fatica fisica e psicologica? Dall’analisi del lavoro e delle mansioni svolte nella ricerca delle Acli Colf si evincono le competenze che caratterizzano questa figura professionale e si apre il ragionamento sul riconoscimento formale di queste competenze o sulle modalità di acquisirle se carenti.

Il lavoro della badante si riconduce a quattro macrotipologie di mansioni.

Innanzitutto le badanti sono anche colf, nel senso che svolgono i lavori domestici di pulizia e cura della casa tipiche del lavoro domestico. Ma solo una parte di esse gode di larga autonomia nella preparazione dei pasti e nel fare la spesa. Il cibo è un tema “sensibile” nel quale si confrontano gusti, abitudini, culture, aspetti religiosi, e finché gli assistiti - specie le donne - o i familiari possono occuparsene, non lo delegano o lo delegano solo in parte alla badante.

L’igiene e la cura della persona sono una componente essenziale del lavoro, che cresce in relazione al venir meno dell’autosufficienza della persona assistita (nella ricerca citata circa tre quarti degli assistiti non sono autosufficienti dal punto di vista motorio e la metà hanno problemi di demenza). Oltre agli aspetti di base dell’igiene (lavare, pettinare, curare mani e piedi, ecc.) ci sono problemi di movimentazione, di gestione di aspetti delicati come incontinenze, stipsi, ecc. che richiedono pazienza, rispetto, ma anche abilità specifiche e conoscenza delle norme di sicurezza. Oltre a una capacità di attenzione e di osservazione di cambiamenti o problematiche che se segnalate per tempo evitano problemi più gravi. 

Una terza componente riguarda le mansioni di tipo parainfermieristico, che vanno dalla somministrazione di farmaci - compresa l’insulina ai diabetici -, alla misurazione di pressione, glicemia, ecc., all’effettuazione di medicazioni (lo fa il 58% delle intervistate). Ma il 42% delle badanti intervistate fa anche iniezioni. Siamo dunque in presenza di mansioni che sconfinano con quelle parasanitarie o sanitarie, tipiche di figure come gli operatori socio-sanitari o gli infermieri. 

La quarta tipologia - ma non certo per importanza - riguarda tutto ciò che rientra nella sfera della relazione con la persona assistita: come si passa il tempo? Posto che il 37% delle badanti intervistate ha dichiarato di non uscire mai con la persona assistita - in primis per difficoltà legate a demenze -, come trascorrono le lunghe ore della giornata? Non è troppo difficile immaginare le tante piccole cose che riempiono le giornate di una badante. Queste variano in tempi e modalità a seconda delle caratteristiche e della reattività dell’assistito, del contesto abitativo e sociale, delle risorse di cui si dispone, degli spazi, del sistema di relazioni. Si chiacchiera, si guarda la televisione, si cucina. Rilevante anche il rapporto con la natura: curare fiori, orto, giardino, terrazzo o balcone è un diversivo piacevole e gratificante, sia per la badante che per la persona assistita. Nella gestione del tempo che la badante trascorre con l’assistito si gioca gran parte della qualità della relazione che si stabilisce tra loro: la comunicazione, la condivisione, l’apprendimento reciproco, sono elementi che spesso fanno scattare empatia, che mobilitano dimensioni affettive dall’una e dall’altra parte. Quelle dimensioni da cui ci si deve guardare: come afferma la maggior parte delle intervistate, per non soffrire troppo nell’inevitabile momento del distacco. Ma è anche tutto ciò che fa la differenza tra forme di assistenza che si limitano a sorvegliare (badare a) la persona, e forme che ricercano l’impegno nell’animazione, nello stimolo. Ciò implica doti di creatività, fantasia, ma anche aspetti caratteriali: una persona malinconica o depressa riesce certo con maggiore difficoltà a svolgere ruoli di questo tipo. Naturalmente il quadro si complica nel caso di demenza o Alzheimer, ma anche in presenza di atteggiamenti aggressivi delle persone assistite. Qui il lavoro diventa veramente usurante e con forti componenti di stress.

Se leggiamo le mansioni svolte con l’ottica delle competenze necessarie, nascono riflessioni interessanti. Il lavoro di cura della casa e di preparazione dei pasti, svolto con professionalità, richiede conoscenze adeguate sui prodotti, sulla raccolta differenziata, sulla scadenza degli alimenti, sulle modalità di preparazione dei pasti. Spesso qui si incontrano abitudini e culture diverse e occorre trovare un equilibrio. L’igiene e la cura della persona, soprattutto se non autosufficiente, richiedono non solo specifiche abilità, ma anche attenzioni e delicatezze psicologiche. La gestione di aspetti sanitari pone un problema di specifiche abilitazioni, ma spesso lo sconfinamento si rende necessario per urgenze o necessità, difficoltà o trascuratezza dei familiari, problemi di solitudine dell’anziano. Solo il 22% delle intervistate ha conseguito le specifiche qualificazioni. Le altre si arrangiano e apprendono sul campo. C’è quindi sia un problema di competenze da riconoscere, sia una questione di competenze da acquisire e consolidare.

Circa la dimensione del rapporto relazionale con la persona assistita si deve considerare che in una persona anziana prevale la dimensione della lentezza e chi le sta vicino deve adeguarsi. Ma un tempo rallentato è più lungo e complicato da gestire e implica una serie di competenze che debbono essere messe in campo in misura assai variabile a seconda delle caratteristiche non solo fisiche e cognitive, ma anche caratteriali della persona assistita, nonché del contesto in cui essa si trova (solitudine, intensità della presenza familiare e amicale, ecc.). 

È evidente che le attività che si svolgono e le modalità di interazione possono avere importanti funzioni di stimolo e di rallentamento dei processi di decadimento. Trascorrere molto tempo insieme a una persona, specie se ci si convive, implica abbastanza naturalmente la conversazione. Qui si pone un problema: a parte la propensione caratteriale a chiacchierare, entrano in gioco la conoscenza della lingua - che oltretutto spesso è il dialetto - la conoscenza della storia della persona e della famiglia e la conoscenza del contesto sociale e culturale. Sono tre dimensioni che fanno la differenza: a parte la lingua, elemento primario della comunicazione, sapere chi è la persona che si assiste, che storia ha, ripercorrerla con lei attraverso foto, lettere, oggetti, condividerla con i familiari, fa davvero la differenza. Ma anche il grado di conoscenza del contesto culturale e sociale: riti, abitudini, feste, proverbi, usanze. Sono elementi che non si acquisiscono in poco tempo, ma che diventano parte della qualità umana e professionale della badante, se lei diventa consapevole dell’importanza di queste dimensioni e si impegna o si interessa ad appropriarsene. E ciò diventa una vera carta di credito per i lavori futuri.

È comunque interessante notare che le badanti intervistate individuano tra le competenze lavorative da migliorare quelle specialistiche - medicazioni e piccoli controlli medici - indicate dal 31,9% e quelle relative alla capacità relazionale - fare compagnia e dare sostegno psicologico -, indicate dal 28,2%. Un quinto delle intervistate individua le competenze più tipiche della colf - cucinare e tenere in ordine la casa - come ambiti di miglioramento.

Stiamo dunque parlando di una vera figura professionale, che deve avere competenze di varia natura, da esercitare con buoni margini di autonomia e responsabilità, senza invadere campi che sono di altri, ma collaborando con le altre professionalità che intervengono nei servizi di cura, e interagendo con i familiari, diretti responsabili delle scelte e dell’organizzazione del lavoro. E che deve essere in grado di gestire un lavoro con forti componenti di sindrome da burnout.

Al momento esistono numerosi profili professionali nelle diverse regioni in cui è stata operata una qualche regolamentazione della figura, partendo dall’istituzione di albi o registri che definiscono requisiti per accedervi, o istituendo o finanziando corsi di formazione, peraltro promossi ormai diffusamente da diversi soggetti: enti locali, associazioni, cooperative, ma senza una definizione coordinata dei principali ambiti che necessitano di una specifica qualificazione. Non esiste invece un profilo standard a livello nazionale, da tutti formalmente condiviso. Per questo, l’analisi puntuale delle competenze “agite” offre spunti di conferma o suggerimenti nuovi anche nella direzione di una definizione della “figura professionale” di queste lavoratrici. 

D’altra parte, se è vero che sono numerose le badanti che necessitano di una formazione per migliorare la loro qualificazione professionale, è altrettanto vero che molte competenze le acquisiscono sul campo, con l’esperienza, e in taluni casi le hanno acquisite nel loro paese di provenienza, prima di venire in Italia. Vi è dunque una duplice esigenza: da un lato quella di assicurare un livello adeguato di qualificazione professionale, che sia una garanzia per chi assume, dall’altro quello di riconoscere in maniera formale le competenze di cui si è già in possesso, sia al fine di agevolare il rapporto di lavoro, sia al fine di ottenere un eventuale credito verso altri titoli affini, tipico quello di operatore socio-sanitario.

Tutto ciò, dovrebbe avvenire secondo modalità  e regole valide per l’intero territorio nazionale. Il quadro normativo oggi lo consente, perché è in fase di definizione il Repertorio nazionale delle qualificazioni, costruito dalla collaborazione tra stato e regioni, in coerenza con le indicazioni a livello europeo.

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