Politiche

Il libro, appena uscito per Ediesse, racconta chi sono, cosa fanno e come vivono le badanti che lavorano nelle famiglie italiane

Viaggio nel
lavoro di cura

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L’Italia è tra i paesi con il più alto numero di lavoratrici domestiche e di cura in Europa. Nonostante nel 2015 il mercato privato dei servizi di cura e domestici conti 886 mila lavoratrici regolarmente iscritte all’Inps, questo settore riceve visibilità solo in corrispondenza delle sanatorie rivolte ai migranti e viene generalmente percepito come un lavoro dequalificato e dequalificante. Invece questa categoria di lavoratrici andrebbe osservata con più attenzione, per capire cosa significhi oggi un lavoro dignitoso in questo settore e perché è così importante far emergere le trasformazioni che hanno coinvolto il lavoro di cura e domestico nel tempo.

A quattro anni di distanza dall’ultima sanatoria, la ricerca Viaggio nel lavoro di cura. Chi sono, cosa fanno e come vivono le badanti che lavorano in Italia edito da Ediesse, finalmente riporta l’attenzione su questi temi. Focalizzandosi principalmente sugli anni della crisi economica, l’indagine promossa da Acli Colf e realizzata dall’Istituto di ricerche educative e formative (Iref), raccoglie una serie di saggi in cui si descrivono i risultati delle interviste condotte a 867 lavoratrici residenti in 177 comuni italiani impiegate nell’assistenza diretta di anziani non autosufficienti. L’indagine pone al centro dell’analisi la figura della “badante”, investigandone le condizioni di lavoro e retribuzioni, di salute, le mansioni, il progetto migratorio, la soddisfazione rispetto al trattamento ricevuto dalla famiglia datrice di lavoro e alla professione, il sistema contributivo.

Anche se l’indagine si focalizza sul contesto italiano caratterizzato da una consolidata legislazione in materia di diritto del lavoro, lo sguardo d’insieme rimane teso a tracciare una connessione tra il tema delle diseguaglianze e la distribuzione di cura e assistenza a livello transnazionale. Le vulnerabilità che contraddistinguono questo tipo di occupazioni dipendono dal fatto che i sistemi globali di cura si basano su scambi asimmetrici: dalle donne agli uomini, dalla popolazione migrante a quella ospitante, dalle classi meno a quelle più abbienti, dai paesi poveri a quelli più ricchi. Infatti la rappresentazione tipica della badante ormai ben consolidata nell’immaginario comune, si riconferma anche in questa ricerca: una donna matura, proveniente dall’est Europa con un titolo di studio mediamente alto che abita nella casa della persona che assiste. Tuttavia a dispetto dei dati medi, la ricerca affronta un viaggio svelando una realtà sfaccettata di un settore occupazionale che risponde alle esigenze di una domanda destinata a crescere e che raccoglie bisogni complessi e diversificati. 

Le assistenti familiari occupano da sempre i margini del mercato del lavoro, in una zona grigia dove sono le donne migranti ad essere principalmente esposte al lavoro sommerso e penalizzate in termini di salario e condizioni di lavoro. La ricerca articola nel dettaglio ulteriori vulnerabilità che contraddistinguono il lavoro delle assistenti familiari e che ne fanno un lavoro usurante, che ha forti ripercussioni a livello psicofisico sulle lavoratrici - in particolare quelle coabitanti - e a rischio di molestie o violenza sul lavoro.

La qualità e quantità di informazioni raccolte in quest’indagine è la prima positiva novità da segnalare considerando che in Italia la base informativa statistica disponibile, solo superficialmente cattura le lavoratrici domestiche e di cura. La disponibilità di informazioni come quelle relative alla professionalità, alla salute o alle mansioni, è infatti un tema non trascurabile se si vuole descrivere più a fondo una professione difficilmente raggiungibile, dato il luogo di lavoro e rintracciabile, dato il sommerso. La ricchezza delle informazioni in questa ricerca è il risultato di una lunga e intensa fase di raccolta che si è articolata in due momenti: il primo preparatorio basato su 9 focus group con le lavoratrici e il secondo di rilevazione. Un viaggio iniziato nel 2012 in profondità nel lavoro di cura che ci auspichiamo non si interrompa, ma che trovi continuità metodologica e informativa. 

Data l’abbondanza di elaborazioni, spunti di riflessione e aspetti presentati, di seguito verranno trattati solo alcuni dei risultati e delle suggestioni che emergono dalla ricerca, quali il problema della svalutazione e il riconoscimento della professione di assistente familiare e gli effetti della crisi economica. 

Svalutazione e non riconoscimento contro professionalità e consapevolezza

La cura è generalmente considerata un’attività e un’attitudine femminile, non tecnica e gratuita. La svalorizzazione e il non riconoscimento sociale sono degli elementi che caratterizzano le attività domestiche e di cura anche quando queste sono svolte a pagamento nel mercato privato. Non a caso uno degli slogan promossi all’indomani della Convezione Ilo n. 189 recitava proprio “care work is work”. Più una certa care culture si basa sulla minimizzazione e sul disconoscimento del ruolo sociale della cura, più il lavoro di assistenza sarà caratterizzato da condizioni di lavoro precarie e da sfruttamento. La ricerca ha il valore aggiunto di articolare e raccogliere la complessità del rapporto che si è creato in Italia, tra sottovalutazione e non riconoscimento del lavoro di cura e il tema della dignità e della professionalità che spetta alle lavoratrici. In un precedente articolo, Olga Turrini, tra le autrici del volume, si è soffermata sulle mansioni. In questo, si affronteranno brevemente due particolari segnali di cambiamento che emergono rispetto a questo tema: la formazione e la consapevolezza della professionalità da parte delle lavoratrici stesse. 

Sotto il profilo formativo, il 21,2% delle assistenti familiari intervistate detiene almeno una laurea mentre il 54,4% ha comunque studiato per un periodo di tempo pari alla frequentazione della scuola secondaria superiore. Il primo dato che emerge immediatamente agli occhi è il così detto waste brain, ossia quel fenomeno per cui i/le migranti occupano posti di lavoro non specializzati pur avendo qualifiche superiori. Altro dato interessante è quello relativo alla formazione professionale, il 22,2% ha avuto un’esperienza formativa in campo medico-infermieristico, mentre una su tre ha fatto un corso di formazione specifico in Italia. Questo conferma che in media le assistenti familiari non solo hanno un livello di cultura generale elevato ma anche una qualche esperienza formativa in campo assistenziale. Anche se il dato deve essere interpretato considerando che il campione raccoglie lavoratrici con progetti migratori di medio e lungo periodo, tali risultati sono molto importanti perché iniziano a smontare un pregiudizio. L’esperienza raggiunta e la professionalità e le competenze maturate dalle intervistate non coincidono con l’idea comune che l’assistente familiare sia un’occupazione “a tempo” per molte donne migranti. Forse è arrivato il momento di rendersi conto che l’idea di una migrante che si arrangia a far tutto addirittura a fare la “badante”, non rispecchia più un settore che si è sviluppato notevolmente negli ultimi venti anni.  

Nel viaggio in cui questa ricerca ci conduce, scopriamo che la percezione svalutante da parte della società non necessariamente corrisponde con la percezione espressa dalle stesse lavoratrici. L’81,6% delle donne intervistate non ha problemi a definirsi professionalmente come “badante” e il 59,5% pensa che questo sia il termine migliore per descrivere il lavoro che fa. Questo termine, anche se è comunemente utilizzato per indicare una professione considerata umile e dequalificata, non viene riconosciuta come tale dalla maggior parte delle lavoratrici. La consapevolezza della propria esperienza e professionalità coincide però anche con il fatto di essere coscienti che l’assistente familiare non sia una professione socialmente riconosciuta. Infatti alla domanda, “Secondo te la gente sa quanto è importante il lavoro di badante?”, le intervistate si dividono con metà che dichiara che in generale le persone non riconoscono la valenza sociale del lavoro di cura. Il riconoscimento sociale in un’ultima analisi non è una questione banale perché influisce negativamente sulle motivazioni personali che spingono a rimanere nel settore, che com’è noto, è caratterizzato da alti livelli di turnover. 

La crisi economica, più sfruttamento e precarietà

Anche se le statistiche ufficiali riportate all’interno del volume confermano il trend anticiclico del settore rispetto all’occupazione totale, la ricerca mostra come ci siano dei segnali allarmanti per quel che riguarda le condizioni di lavoro e la paga. In media le assistenti familiari intervistate guadagnano 800 euro mensili e percepiscono una retribuzione oraria pari a 4 euro. Secondo i risultati relativi a un’indagine condotta sempre da Acli Colf nel 2007, la paga oraria era pari a 6 euro l’ora. Questo si può interpretare come un chiaro segno che a parità di retribuzione mensile, la strategia messa in campo durante gli anni di crisi sia stata aumentare il numero di ore lavorate.  

È interessante riportare il risultato del dato salariale in base alla co residenza. Rispetto sempre all’indagine del 2007, il salario orario è diminuito di 1,25 euro l’ora (5 euro nel 2007 e 3,75 nel 2015). La situazione peggiora quando l’assistente familiare non coabita con l’assistito, ma lavora ad ore: da 6,50 euro l’ora a 4,32 euro, con una perdita di oltre 2 euro. Anche se in media una lavoratrice coresidente percepisce un salario orario più basso (3,75 euro l’ora contro 4,32 euro per le non co residenti), emerge che queste lavoratrici hanno subito meno della riduzione dei salari poggiando su un monte ore più elevato. Questo indica una maggiore sofferenza della domanda di servizi a ore e quindi anche della relativa domanda. Tale dato è coerente con le elaborazioni sui dati Inps riportati nel volume per cui tra il 2012 e il 2014, mentre le assistenti familiari regolarmente registrate sono aumentate di quasi quattromila unità, le colf hanno subito una perdita di oltre centomila lavoratrici. 

La ricerca rileva che la crisi economica ha messo in moto una pericolosa spinta al ribasso che non coinvolge solo la paga, le condizioni o la regolarità del contratto, ma anche l’orario e il carico di lavoro. Non si può parlare di lavoro di cura senza affrontare il problema del lavoro nero. La modalità generalmente assunta e accettata da famiglie e lavoratrici è di formalizzare parte della posizione lavorativa. Il fatto che a molte lavoratrici convenga questa formula (nota 25 ore), non vuol dire che siano meno ricattabili. Infatti dalla ricerca emerge che il 41,7% delle intervistate si dichiara molto d’accordo con la considerazione per cui con la crisi economica è molto più difficile farsi assumere con contratto totalmente o parzialmente regolare. Mentre il 44,3% delle intervistate è molto d’accordo con l’affermazione per cui negli ultimi anni le famiglie chiedano loro di lavorare di più, senza però aumentare la paga. Un peggioramento per un lavoro già usurante che coinvolge quindi anche compiti e mansioni come rilavano i focus group.  

Oltre ai risultati della ricerca il libro è arricchito da diversi contributi che completano questo viaggio alla scoperta di strumenti che ci facciano capire le trasformazioni che stanno coinvolgendo questa parte di occupazione difficilmente osservabile. È importante leggere i risultati di questa ricca ricerca che fa della dignità del lavoro una dimensione di analisi e ne ampia il respiro per catturare la portata generale e strutturale perché non riguarda solo questa nicchia di occupazione. Visto che la domanda globale di servizi domestici e di cura è prevista crescere rapidamente ed esponenzialmente nel prossimo futuro, la mancata corrispondenza tra questa e l’offerta di lavoro è destinata a peggiorare, con effetti che trascenderanno il mercato di cura privato per coinvolgere l'intero mercato del lavoro (ed esempio, l’occupazione femminile) e il sistema di welfare (in termini di accessibilità ai servizi). Quindi l’invito rivolto dagli autori a un maggiore impegno politico nella piena applicazione della Convezione Ilo n.189 (ad esempio in tema di maternità e malattia) deve essere assunto come interesse generale verso un più equo sistema di cura. 

Viaggio nel lavoro di cura. Chi sono, cosa fanno e come vivono le badanti che lavorano nelle famiglie italiane, Maioni R., Zucca G. (a cura di), Ediesse, 2016

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