Il commento
Se occupazione e natalità
crescono insieme
Del rapporto annuale appena diffuso dall’Inps si è parlato molto negli ultimi giorni per il buco di circa 37 miliardi che chiudere le frontiere ai migranti comporterebbe. Gli stranieri regolarmente occupati sono una voce importante delle entrate erariali, e questo si sapeva, ma la cifra fa riflettere.
Una novità, invece, il rapporto la contiene, e riguarda le donne.
Il volume dedica infatti per la prima volta un intero capitolo al nesso tra occupazione femminile e natalità, finalmente centrando due punti chiave che riguardano la situazione in Italia e che su inGenere andiamo ribadendo da tempo. Il primo è la cosiddetta correlazione inversa tra occupazione e natalità di cui alcune di noi hanno iniziato a parlare ormai più di vent’anni fa, per prime in Europa e non solo, e cioè che nei paesi in cui il tasso di occupazione è più elevato c’è anche una natalità più alta, e viceversa. L’Italia, purtroppo sta nel viceversa, ma il messaggio è sempre quello, occorre intervenire su ciò che aiuta riconciliare vita e lavoro. Il secondo punto è che non si deve guardare al gap salariale fra uomini e donne – quello di cui invece si parla più spesso – bensì al gap di reddito, quello che per l’Italia è al 38 per cento e che è molto simile al gap pensionistico. In Italia, cioè, la vera disparità con gli uomini è quanto la donna "porta a casa" in media con il suo lavoro, e non quanto guadagna per ora lavorata. È una tesi che inGenere va difendendo da qualche anno.
Dunque, sì, non neghiamo la soddisfazione che proviamo nel constatare che, magari tardi, magari per canali indiretti, i problemi a cui alcune di noi hanno dedicato una vita di ricerca sono emersi come nodi centrali nel dibattito.
I dubbi rispetto al rapporto sono invece tutti sul modo in cui si leggono gli effetti di due misure di conciliazione - il cosiddetto “bonus infanzia” e il “bonus padri” - entrate in vigore negli ultimi anni per incoraggiare natalità, occupazione femminile e condivisione dei carichi di cura.
Partiamo dal bonus infanzia. Questa misura, introdotta dalla legge di stabilità del 2014 e rivolta alle nuove mamme e agli asili, prevede una somma che può arrivare fino a 600 euro mensili per sei mesi spendibili in voucher per le baby sitter o per coprire le rette dell’asilo, a seconda di chi ne fa richiesta. Le richieste di accesso al bonus sono state abbastanza numerose da esaurire la somma messa a disposizione dal governo, e questa è già una buona notizia.
Quello che si vede dal rapporto è che la domanda individuale ha prevalso sulle domande da parte degli asili e a richiedere il bonus sono state soprattutto le donne residenti al Sud che ci hanno pagato in voucher le baby-sitter. Un dato interessante, questo, che sembra dirci che la misura ha centrato l’obiettivo, considerando che al Sud l’occupazione delle donne è molto più bassa e che ci sono molti meno asili.
Cerchiamo di capire quali sono stati gli effetti sull’occupazione e sul reddito delle madri occupate. Dal rapporto si evince che il bonus ha frenato l’uscita delle nuovi madri dall’occupazione. A partire dalla fine dei sei mesi di maternità obbligatoria, per chi non ha usufruito del bonus il tasso di abbandono dell’occupazione cresce in maniera sostanziosa e continua a crescere fino a superare il 20-25% a dodici mesi, mentre per quelle che hanno usufruito del bonus il tasso cresce ma si tiene sotto il 10% anche oltre i 12 mesi (figura 2). L’effetto frenante sul tasso d’uscita dal mercato del lavoro sembrerebbe dunque assai significativo.
Se però guardiamo ai beneficiari del bonus, vediamo che a usufruirne sono state soprattutto le donne scolarizzate, impiegate (quindi con occupazioni più stabili), e con redditi più alti. Le stesse che probabilmente l’intenzione di lasciare il lavoro non l’avevano comunque, bonus o non bonus. L’effetto sarebbe allora molto meno di quello che appare, trattandosi di una “selezione favorevole”. Se il provvedimento fosse stato pienamente efficace avrebbe dovuto mirare a tenere nel mercato le occupate più povere, e che invece dopo la maternità ne sono uscite.
Stiamo comunque parlando di una misura che è poco più di un esperimento. Il rapporto non fornisce il numero dei beneficiari, ma a spanne, si tratta di una quota attorno al 5% delle nuove mamme ogni anno in media nazionale.
Se dunque si rischia di sopravvalutare l’effetto del bonus infanzia sull’occupazione, diverso è il discorso per il bonus padri, il cui impatto esce quasi sminuito dal rapporto. La misura, entrata in funzione nel 2013, prevede che i padri che prendono almeno tre mesi di congedo parentale (facoltativo) abbiano diritto al bonus di un mese in più.
Certo, i padri che chiedono il congedo facoltativo sono sempre troppo pochi – circa diecimila nel 2015- scolarizzati e prevalentemente occupati nel settore pubblico, ma in tre anni il loro numero è praticamente raddoppiato (figura3). E non è cosa da poco. Si tratta di un segnale incoraggiante e che ci fa ben sperare, anche rispetto a quelli che potranno essere gli effetti della nuova direttiva europea, ben più generosa in tema di congedi di paternità.
Il vero ostacolo rimane il settore privato non ancora disposto a rinunciare ai padri come risorse su cui poter contare sempre e comunque.