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Prende il titolo da uno degli slogan che l'autrice si era scritta addosso al momento della sua protesta virtuale, il libro d’esordio di Amina Sboui, la giovane tunisina che nel 2013 postò alcune sue foto a seno nudo sul web

Il mio corpo mi appartiene

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Il libro d’esordio di Amina Sboui, la giovane tunisina che nel febbraio-marzo 2013 postò alcune sue foto a seno nudo sul web, prende il titolo da uno degli slogan che si era scritta addosso al momento della sua protesta virtuale. Il tema centrale del libro è la narrazione del modo da lei scelto per protestare contro “il pericolo integralista islamico”. La narrazione viene poi a mescolarsi a tutta la serie di altri avvenimenti riguardanti la Tunisia su un piano socio-politico ben più ampio: quello delle rivolte, delle cause scatenanti e dell'eredità di tali eventi.

Tra le prime pagine del libro si scopre così che Amina non ha preso ispirazione dalle FEMEN per mettere in atto la sua protesta, quanto dall’aver visto online “un gruppo di donne completamente nude che reggevano uno striscione con la scritta: Indian army rape us (l’esercito indiano ci violenta), che denunciavano le aggressioni sessuali compiute da alcuni militari dell’esercito indiano del Kashmir e in altre province”. Amina racconta di aver avuto la consapevolezza che emulando quel gesto avrebbe messo in difficoltà la sua famiglia, appartenente alla borghesia tunisina, lontana quindi dalla contestazione politica ma comunque soggetta alla rigida morale sociale del paese.

Amina si dirà però anche sorpresa dalla risonanza che il suo gesto ha avuto e che lei imputa soprattutto alla condivisione delle sue foto da parte della pagina ufficiale delle FEMEN. Svelando i retroscena di alcuni avvenimenti accaduti dopo il suo gesto, dicendo, ad esempio, della sua reclusione forzata in casa organizzata dalla sua famiglia per proteggerla dagli islamisti che minacciavano di lapidarla, il racconto di Amina si snoda tra ricordi personali e avvenimenti della rivoluzione, più o meno noti.

Dal un punto di vista biografico, raccontando degli abusi subiti a soli quattro anni, della sua conseguente e passeggera convinzione di voler indossare il velo, della sua fascinazione per il rock, per Nietzsche e Sartre anziché per la religione, Amina sembra fa emergere la figura di un’anima “maledetta”, che non perdona la madre di non averle mai mostrato dolcezza e comprensione, al contrario del padre, sempre al suo fianco.

Dal punto di vista politico, invece, Amina si fa portavoce dei soprusi compiuti dalla polizia tunisina prima, durante e dopo le rivolte e delle condizioni disumane in cui le donne detenute nelle carceri sono costrette a vivere, insieme ai loro bambini. Ad un certo punto poi, l’attenzione dell'autrice cade sul “pericolo islamista arrivato dopo la rivoluzione”. Per Amina il campanello d’allarme più evidente di ciò, sarebbe stato il palesarsi in Tunisia di donne in niqab, cosa del tutto nuova in un paese in cui negli anni del regime perfino il semplice hijab era proibito nella sfera pubblica.

Amina, non manifestando evidentemente condivisione per quella che è una società tunisina ancora troppo tradizionale, alla fine della sua narrazione rigetta anche lo stesso modello di protesta delle FEMEN. La ragione, la espone in un’aperta critica ai modi da loro scelti per portare avanti le rivendicazioni femministe che, a suo nuovo dire, non si misurano con il contesto di tutti i paesi in cui vengono messe in atto.

Caroline Glorion, co-curatrice del libro, definisce Amina una “portavoce del pensiero della sua generazione”. Qualcosa che può apparire esagerato agli occhi di una giovane tunisina di seconda generazione che vive in Italia e che dall’Italia ha osservato il fenomeno. In questo senso, il testo sembra più propriamente rappresentare una biografia, che prende avvio da un gesto eclatante, per poi allargare lo sguardo agli eventi socio politici del paese. Ma quello che Amina racconta, dal suo particolare punto di vista, sono vicende già note a proposito della Tunisia, del regime di Ben Ali e degli eventi accaduti prima, durante e dopo la rivoluzione.

L'opinione pubblica tunisina risulta sempre spaccata in due rispetto alla vicenda di Amina. Da una parte, c’è chi pur non condividendo le modalità da lei scelte per manifestare il suo dissenso riconosce il suo diritto ad esprimersi. Dall’altra, chi, tuttavia, considera il suo gesto totalmente estraneo e controproducente. La Tunisia, ha infatti alle spalle una lunga storia di movimenti e rappresentanze femminili, oltre che vantare uno dei Codici di statuto personale più antichi e avanzati del mondo arabo. In questa cornice, il pensiero più diffuso in merito al gesto di Amina, è stato quello per cui il paese essendo abituato a negoziare la libertà con il peso della religione e della tradizione, non aveva bisogno di Amina Sboui per incitare delle coscienze femministe e aprire gli occhi davanti al “pericolo islamista”.

Mettendo nero su bianco le sue parole in un contesto, quello francese in cui adesso vive, più semplice per certe denunce rispetto a quello tunisino, Amina ha diffuso una testimonianza in un certo senso poco significativa rispetto a quello che la Tunisia ha vissuto negli anni 2000. Il femminismo tunisino, e le questioni di genere, non sembrano infatti trovare spazio nelle pagine del libro, così come non sembra averlo nessuna particolare visione del corpo femminile o della sessualità. Questo ridimensiona il significato politico del gesto che lo ha fatto nascere.