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Il modello nordico che ora viene promosso dall'Unione Europea ha come conseguenza giuridica la punizione del maschio colpevole. Un libro italiano lo analizza e ne trova molti limiti

Vendere e comprare sesso

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Violenza contro le donne, tratta e prostituzione sono troppo spesso nella retorica politica presentate come un tutt'uno. Lo scivolare dall'una all'altra come se non vi fossero distinguo rilevanti tra questi diversi fenomeni ha conseguenze negative sia per le scelte di politica sociale sia per il clima di opinione che ingenera. Appiattire l'una sull'altra queste realtà poco aiuta a comprendere cos'è la prostituzione. Che si debba cercare di trattare il tema della prostituzione separandolo da quello della violenza di genere e della tratta è una delle premesse fondamentali di questo agile lavoro di Giulia Garofalo Geymonat, pubblicato nella collana Farsi un'idea.

Cos'è, dunque, la prostituzione? L'elemento che distingue la prostituzione da altre forme di lavoro o di relazioni con finalità sessuali è l'esplicita richiesta e/o offerta di denaro per ottenere un servizio sessuale. Nulla cambia, ai fini dell'individuazione in termini giuridici dell'attività di prostituisi per la gran parte degli ordinamenti, il luogo in cui è svolta l'attività, l'entità del pagamento, il fatto che ci si prostituisca solo per brevi periodi o solo saltuariamente, che si sia eterosessuali o queer – gay, lesbiche, bisessuali o transessuali. Lo stigma della prostituzione, esperienza comune a tutti/e i/le sex worker, spesso interiorizzato come senso di vergogna, è legato al modo in cui la società guarda allo scambio di sesso in cambio di denaro e tocca in modo eguale tanto la prostituta o il prostituto di strada quanto coloro che lavorano in ambienti raffinati.

Se il lavoro sessuale in quanto scambio di sesso per denaro è fin troppo chiaro e trasparente nella sua configurazione, le condizioni di vita e di lavoro del/la sex worker possono cambiare radicalmente a seconda del regime giuridico in cui quest'attività è inquadrata dai singoli paesi. In linea generale, si possono distinguere quattro diversi modelli: criminalizzazione o proibizionismo, regolamentazione o legalizzazione, abolizionismo e decriminalizzazione. Di questi modelli, di cui il testo ricostruisce puntualmente la genesi, la filosofia ispiratrice e la struttura organizzativa, alcuni presentano oggi delle varianti significative, si parla così - come vedremo tra breve - di modello neo-proibizionista e neo-regolamentarista.

Il regime proibizionista, che è presente in gran parte del mondo, dalla Russia, alla Cina agli Usa, si è diffuso in Europa tra il  XVII-XVIII secolo, quando l'avvento della sifilide portò alla criminalizzazione della prostituzione e a inaugurare un vero e proprio regime di persecuzione nei confronti delle prostitute. I regimi proibizionisti, in generale, prevedono pene severe per chi vende sesso: si può arrivare persino alla detenzione (come in Cina) o alla pena di morte (laddove vige la shari'a).

La regolamentazione classica  è prevalsa per tutto l'Ottocento e oltre (è ancora presente in Turchia, dove esistono bordelli di stato). Intorno a questo modello, e alle case chiuse che ne sono state l'espressione in Italia, si è costruita nel nostro paese una sorta di mitizzazione maschile che nell'immaginario collettivo ne ha nascosto la durissima realtà. La prostituta, infatti, non poteva vivere al di fuori della casa chiusa e  decidere dove lavorare. La sua condizione era prossima a quella di una vera e propria forma di schiavitù, fatta di controlli sanitari obbligatori, di una severa supervisione statale, con schedatura e costante vigilanza da parte delle autorità di polizia. La continua violazione dei diritti delle sex worker veniva giustificata sulla base di un doppio standard che, mentre riconosceva il cliente come un normale cittadino, vedeva nella prostituta un individuo deviante.

Il terzo modello è l'abolizionismo, di cui la Legge Merlin è un classico esempio. Con esso cessa ogni controllo diretto dello stato: la prostituzione non è illecita tra adulti consenzienti, purché non vi sia l'intervento di terzi.  Questo modello presenta due problemi: da un lato, indebolisce la soggettività giuridica del/la sex worker, in quanto non ammette in alcun caso che la prostituzione (considerata un'attività intrinsecamente degradante) possa essere una scelta e, dall'altro, assimila facilmente ogni forma di cooperazione allo sfruttamento, così che risulta assai difficile stare sul mercato del sesso senza violare qualche norma. Per un prostituta è quasi impossibile avere un/a compagno/a stabile con cui convivere, avere una segretaria o lavorare insieme ad altre sex worker, senza il pericolo che possa scattare nei loro confronti l'accusa di prossenetismo.

La protesta dei primi movimenti delle sex worker porta negli anni Novanta alcuni paesi (Olanda, Germania, Australia e Nuova Zelanda) a sperimentare i. modelli che vengono definiti “neoregolamentarista” e di “decriminalizzazione”.

La prostituzione viene in questo caso riconosciuta come un lavoro e le/i sex worker godono di molti dei diritti dei lavoratori. In questi sistemi, ai fini del disegno delle politiche di intervento sociale, la consultazione dei gruppi di sex worker viene considerata fondamentale in ogni processo decisionale che le/li riguardi. L'obiettivo di queste politiche è migliorare la condizione del/la sex worker sia che voglia rimanere sia che voglia uscire dal proprio status lavorativo. Gli effetti di questa legislazione, almeno in Europa, stentano, tuttavia, a farsi sentire. Il processo di emersione è lento, per vari motivi: per il persistere dello stigma, per il carattere talvolta occasionale del lavoro sessuale e, soprattutto, per effetto di quella parte del mercato che rimane sommersa perché legata alla condizione di migrante irregolare del/della sex worker - una condizione inevitabile, visto che non c'è paese che ai fini del permesso di soggiorno riconosca la prostituzione come lavoro .

La particolare condizione di vulnerabilità allo sfruttamento delle donne migranti nel mercato del sesso è da tempo motivo di comune preoccupazione, in particolare all'interno del movimento femminista. Sulle misure più efficaci per contrastare questo fenomeno, tuttavia, mai come oggi il femminismo manifesta la propria natura plurale e l'esistenza di profonde divisioni interne, qual è quella tra il . “femminismo abolizionista”, erede di una parte del femminismo radicale, e il “femminismo sex work”. L'approvazione della risoluzione Ue del 26 febbraio 2014 in tema di prostituzione testimonia la forza che, a livello istituzionale, ha acquisito il movimento neo-abolizionista, il cui programma di riforma (già sperimentato in Svezia dal 1999, e successivamente adottato anche da Norvegia e Islanda e di probabile prossima adozione in Francia) è molto chiaro nei suoi intenti: punire i clienti delle prostitute per arrestare il fenomeno dello sfruttamento sessuale e della tratta.

Nel modello svedese, ora promosso anche dall'Ue, che Giulia Garofalo Geymonat definisce “neo-proibizionista”, ad essere criminalizzato non è il/la sex worker, ma il cliente. Quest'ultimo oltre a poter essere arrestato, può essere costretto a frequentare veri e propri corsi obbligatori di recupero volti a convincerlo a smettere di comprare sesso. La filosofia che ispira questo tipo di politica sociale muove da due convinzioni di fondo. La prima è che il maschio che compra sesso sia intrinsecamente violento verso le donne come esseri umani e che la prostituzione racchiuda in sé una violenza oggettiva a prescindere da specifici atti violenti che si possono compiere. La seconda che la tratta a fini di sfruttamento sessuale sia strettamente legata alla domanda di sesso.

In Vendere e comprare sesso entrambe queste convinzioni vengono efficacemente confutate. Per quanto riguarda i clienti, ancora quasi tutti maschi (poco si sa delle clienti, se non per alcuni studi sul turismo sessuale femminile), di tutte le età, classi sociali e professioni, singoli e coniugati, recenti ricerche mostrano due dati interessanti.

Il primo è che ci sono segnali importanti di un movimento di autocoscienza dei clienti, nato in modo spontaneo in rete e sostenuto anche da alcuni progetti sperimentati in Svizzera e in Canada che mirano ad educare ad un acquisto di sesso consapevole, lontano sia dalla dipendenza che dalla violenza e capace di riconoscere le possibili condizioni di schiavitù del/della sex worker.

 Il secondo dato che emerge da alcune inchieste è che  quanti in passato hanno aggredito prostitute e prostituti per lo più non erano veri clienti, nel senso che non erano interessati al servizio sessuale, ma all'esercizio di una violenza che spesso sfugge le maglie della giustizia: o perché il/la sex worker, soprattutto se immigrato/a irregolare, non si può permettere di sporgere denuncia, oppure perché comunque raramente la parola di un/una sex worker viene ritenuta credibile alle forze dell'ordine.

Per quanto riguarda, invece, la questione della tratta, ovvero dello sfruttamento a fini sessuali della forza lavoro migrante irregolare, anche qui la realtà risulta più complessa rispetto a quella descritta dal modello “neo-proibizionista”. E' probabile, in questo caso, che non si arriverà veramente a sconfiggere il fenomeno del traffico di esseri umani se non intervenendo, da un lato, sui regimi migratori, sulle regole d'ingresso, e, dall'altro, sulle condizioni di povertà, di grave disuguaglianza, di arretratezza, anche in termini di riconoscimento e garanzia dei diritti umani, presenti in alcuni dei paesi da cui provengono oggi molti migranti, fattori tutti che spingono in direzione di una crescita dell'offerta di lavoro sessuale.

Più che influire sull'offerta di sesso a pagamento, secondo l'autrice, il modello svedese sembra aver mutato le forme in cui i servizi sessuali vengono commercializzati e acquistati: i/le sex worker sono meno visibili sulle strade, ma non spariscono, sono indoor e sulla rete. Sono costretti a svolgere le loro attività con una maggiore riservatezza e ciò ha come prima conseguenza una maggiore difficoltà da parte delle forze dell'ordine a monitorare e controllare il mercato. Un ulteriore effetto di questo modello, nel quale ogni forma di prostituzione migrante viene equiparata a tratta, è stato di tipo protezionista: di fatto sono stati favoriti i/le sex worker autoctoni/e.

Se il modello svedese si distingue da quello proibizionista classico perché non criminalizza le prostitute, non è banale capire come si può punire il cliente senza punire anche la prostituta. Nel sistema svedese, nonostante molte ambiguità permangano - spiega l'autrice - ciò può accadere perché il welfare sostiene con sostanziosi diritti sociali coloro che vogliono uscire dalla prostituzione o che vengono forzate a farlo dallo stato con la minaccia della perdita dei benefici del welfare o dei diritti sui figli. In contesti di forte diseguaglianza sociale o laddove vi è un welfare debole e scarsamente funzionante, punire i clienti significa inevitabilmente anche punire le prostitute, privandole di una delle poche risorse economiche loro disponibili, se non dell'esclusiva risorsa economica di cui dispongono. Ciò sicuramente accadrebbe in Italia, soprattutto nel caso delle trans e di molte giovani migranti, ed è questa, a mio parere, una ragione sufficiente a farci riflettere nel momento in cui l'Ue sollecita i suoi stati membri a emulare il modello svedese.

 

Giulia Garofalo Geymonat, Vendere e comprare sesso. Tra piacere, lavoro e prevaricazione, il Mulino, Bologna 2014, pp. 127.