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Dialoghi. Il settore dell'informazione è stato tra i primi al centro della transizione digitale in corso, ma le redazioni in Italia restano ambienti refrattari a innovazione e inclusione. Ne parliamo con Barbara D'Amico tra le massime esperte in Italia di data journalism ed editoria digitale

Giornaliste
nell'era digitale

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Foto: Unsplash/Sara Kurfeß

Nell'ultimo decennio, l'esclusione delle donne dal mondo digitale ha avuto un impatto molto forte per quanto riguarda la riduzione del Prodotto interno lordo dei paesi a basso e medio reddito. Secondo il report della World Wide Web Foundation, si parla di 126 miliardi nel 2020, una cifra destinata a toccare quota 500 miliardi nel 2025. Nonostante questi dati allarmanti, si continua a fare ancora troppo poco per sanare il divario di genere, con difficoltà e ritardi nelle politiche che riguardano il digitale.

Ne abbiamo parlato con Barbara D'Amico, classe 1983, giornalista professionista e responsabile dell'area di Project management dello studio editoriale WitHub, sempre in viaggio tra Torino e Milano.

Specializzata in data journalism (quella branca del giornalismo in cui i contenuti sono realizzati mediante strumenti matematici, statistici e delle scienze sociali, ndr) e applicazione di strumenti digitali e nuove tecnologie al mondo dell'editoria e dell'informazione, con quasi vent'anni di esperienza nell'industria giornalistica e della comunicazione, tra il 2020 e il 2021 Barbara D’Amico ha anche guidato la sezione in italiano del Google News Lab, formando oltre quattromila professionisti e professioniste dell'informazione su questi temi.

Che riscontro hai da giornalista, comunicatrice e formatrice su temi digitali, della disparità di genere in questo settore?

Facciamo una premessa. In Italia (ma non solo) il lavoro giornalistico è un universo strutturato in modo iperverticistico. Nei giornali e nelle testate si parla di “catena di comando” per indicare il modo in cui i vari comparti di una redazione lavorano tra loro, a partire da chi è al comando, appunto (il direttore responsabile), e questo dice molto su quanto siano rigidi questi ambienti. Quindi, nonostante la fortissima spinta data dalla transizione digitale in corso, nel giornalismo ancora oggi esiste un blocco all'ingresso per le donne e le loro competenze. Se le redazioni sono composte sempre e solo da una maggioranza di giornalisti maschi, bianchi, etero e sulla cinquantina, con lo stesso tipo di formazione alle spalle, per quanto possano essere professionali e di larghe vedute, non potranno mai raccontare e dar voce con pienezza a tutti gli aspetti che riguardano le donne; questo vale anche per i giovani, le persone straniere o con disabilità e le altre categorie meno rappresentate dai media tradizionali. Allo stesso modo, difficilmente le testate riusciranno a capire fino in fondo quanto sia fondamentale cambiare approccio, magari lasciandosi contaminare da figure professionali che sono al confine tra il giornalismo e l'innovazione.

Ecco, parliamo di innovazione: quanto è presente nel mondo dell'informazione di oggi?

Ovviamente ci sono eccezioni, modelli nuovi ed esempi virtuosi; ma volendo generalizzare, il principale ostacolo alla creazione di opportunità in questi ambienti è legato in primo luogo proprio alla difficoltà di ricambio e di inclusione delle diversità e di prospettive nuove. Del resto, inclusione e innovazione vanno sempre di pari passo, perché l'innovazione è figlia della contaminazione: applicando tecniche e strumenti nati per uno scopo a un ambito per cui non erano stati pensati nasce una nuova qualifica, un nuovo campo di studio o di analisi; penso per esempio alla statistica e agli strumenti digitali per il design e l'informazione che hanno dato vita al data journalism. 

Se consideriamo il digitale come nuovo dominio meno strutturato del cartaceo e con molte collaborazioni da remoto, diresti che ha reso il giornalismo un settore capace di offrire maggiori possibilità alle donne?

Più che la tecnologia in sé, credo siano proprio l'apprendimento e la sua esperienza d'uso quotidiana ad aprire oggi moltissime opportunità alle giornaliste e a chi vuole intraprendere una carriera nel mondo dell'informazione e della comunicazione. Quindi, da questo punto di vista, certamente la capacità di utilizzo e di applicazione di strumenti digitali hanno aperto la strada a molte opportunità, al di fuori delle redazioni, ma sempre legate alla possibilità di divulgare, comunicare, informare.

Quindi le giornaliste che lavorano nel digitale sono attualmente più di quelle che lavorano nelle redazioni tradizionali della carta stampata? 

Le donne che lavorano in settori digitali in Europa sono ancora troppo poche rispetto a quelle che studiano per accedere a quei comparti. I dati dell'ultimo rapporto Eurostat sul tema, Women in digital scoreboard 2021, lo dicono chiaramente: in Italia, tra gli specialisti del settore dell'Information and Communication Technologies (ICT), le donne sono solo il 19%. Questo dato è molto indicativo e rende chiaro come il divario di genere sia ancora abissale, dicendoci, in definitiva, che gli strumenti digitali stanno aiutando le donne al di fuori delle redazioni, dei contesti strutturati e “protetti”. Con tutti i problemi che ogni attività svolta in modalità freelance comporta in termini di diritti e di costi di organizzazione. Bisogna poi tener presente che la carta stampata vive da sempre crisi cicliche. Non dimentichiamo però che la stessa informazione su carta oggi è fatta grazie a competenze e strumenti digitali: non credo esistano giornaliste o giornalisti che oggi scrivono ancora a macchina, o che non usino i motori di ricerca e i social per reperire e controllare le loro fonti.

Andando più nello specifico, le nuove tecnologie secondo te hanno delle potenzialità per favorire le donne nella professione?

Non solo possono favorirle, ma possono creare servizi per le imprese editoriali che siano sostenibili e monetizzabili. Il digitale è trasversale, cambia il modo in cui ragioniamo, lavoriamo, velocizza e abbassa i costi di produzione. Eppure, tutto ciò viene costantemente precarizzato, esternalizzato. Questo perché in Italia non esiste ancora la possibilità di veder riconosciuta la competenza digitale con una qualifica e uno stipendio adeguati, cosa che invece all'estero accade da tempo. Io, ad esempio, ho colleghe negli Stati Uniti che lavorano in testate con ruoli come 'news product manager', 'data analyst' o 'audience manager'. Chi è ipercompetente da noi resta fuori, perché le sue qualifiche costano molto. Giornaliste freelance competenti possono avere più collaborazioni, magari lanciare la propria newsletter a pagamento e ottenere così una fonte diretta di sostentamento che le redazioni non sono in grado o non vogliono garantire. L'assurdità è che, appunto, come tutte le persone precarie, sono tenute fuori e ai margini perché si trovano a doversi scontrare con un sistema rigido che non riconosce e non investe in professionalità e modi di lavorare innovativi.

Ci sono persone spaventate dall'”effetto sostituzione” delle nuove tecnologie; tu sostieni però che gli strumenti dell’intelligenza artificiale non siano destinati a sostituire la capacità di chi fa giornalismo di fare il proprio mestiere. Ci spieghi perché?

Sul tema intelligenza artificiale c'è molta confusione e molta ignoranza. In breve: il salto tecnologico fatto con i modelli linguistici e i motori come ChatGPT ha permesso da un lato di semplificare il modo in cui cerchiamo e creiamo contenuti, dall'altro di scalare la tipologia di servizi e contenuti che possiamo distribuire e vendere al pubblico. Strumenti come ChatGPT in realtà esistono da molti anni, ma oggi sono finalmente accessibili. Questo semplifica molti passaggi, in alcuni casi permette di scrivere facilmente codici informatici e creare applicativi anche senza avere competenze specifiche, ma richiede sempre una testa pensante che sappia istruire la macchina. 
Se l'intelligenza artificiale potesse davvero sostituirci, non si spiegherebbe la proliferazione di quelli che io definisco “servizi o strumenti-ponte tra il motore generativo e gli utenti”, ossia strumenti sviluppati da persone umane. Parliamo di applicazioni per usare ChatGpt integrate con la nostra mail, con Google Drive; sistemi per creare presentazioni nella metà del tempo; immagini, ma che magari velocizzano processi come ad esempio l'editing di video o audio. Al momento gli sviluppatori, che in teoria dovrebbero sentirsi la categoria più “minacciata”, di fatto sono anche quelli che hanno subito approfittato della tecnologia, costruendo sistemi che semplificano l'accesso all'intelligenza artificiale a chi non ha competenze tecniche.

In che ottica dobbiamo leggere allora le notizie di redazioni in giro per il mondo che licenziano giornalisti, andando a utlizzare, al loro posto, programmi di creazione automatica di contenuti?

Se analizzate bene, quelle notizie rivelano un tratto comune: dietro c'è sempre una 'content factory' in cui il giornalista come persona fisica si limitava a fare attività di copia e incolla o compilative – bollettini meteo, finanziari, risultati delle partite, ecc. Già da diversi anni, grandi agenzie di stampa internazionali come Reuters e Associated Press, ma anche giornali locali e realtà più piccole sparse per il mondo, hanno introdotto l'intelligenza artificiale per “clonare” i propri giornalisti in video e permettere loro di concentrarsi sul lavoro più importante e di analisi. Gli avatar invece leggevano bollettini e informazioni meccaniche al loro posto, liberandoli da un'attività ripetitiva e mangia-tempo.
Se però abbiamo paura della sostituzione, vuol dire che la nostra redazione o il nostro lavoro è appunto sostituibile, perché di natura compilativa. E dovremmo farci qualche domanda. I sistemi di AI non sono stabili, non garantiscono accuratezza, non producono contenuti a prova di errore. Sbagliano gli imprenditori che, anziché formare le persone, pensano di abbattere i costi e fare profitto in questo modo. Durerà poco. Nel frattempo, bisogna imparare un nuovo linguaggio, quello dei prompt, del saper chiedere. Ma in fondo quello di fare domande è da sempre il nostro mestiere.

Nel tuo lavoro di formatrice ti occupi anche e soprattutto di data journalism. inGenere è una testata “data-grounded”, cioè basata sui dati; come vedi oggi le donne rispetto alle qualifiche legate all'economia dei dati?

Anche in questo caso le opportunità sono aumentate: grazie alla strutturazione di corsi e percorsi che fino a dieci anni fa non esistevano ci sono sempre più professioniste. Lo sbocco principale che osservo in questo momento è nella consulenza e nella formazione. Difficilmente una redazione italiana può permettersi di assumere data journalist o creare un team dedicato. Ci sono però eccezioni – penso a Info Data di Il Sole 24 Ore, ad esempio, o a Il Post, che ha chiamato nella sua redazione Isaia Invernizzi, tra i più noti data journalist in Italia, quindi sono molte le colleghe che supportano esternamente progetti di visualizzazione dei dati per realtà sia editoriali sia aziendali. In generale, spingo moltissimo per formare e continuare a formarmi in un settore in cui più diventi brava, più opportunità hai. Al momento ci sono più sbocchi all'estero, perché questi profili altrove sono ormai ben codificati e riconosciuti. Da noi chi ricopre posizioni apicali, non avendo questo background, fatica molto a valorizzare queste competenze o a capirne anche solo la strategicità. Ma, visto che ormai tantissime realtà permettono lavoro full-time da remoto o in modalità freelance, direi che le occasioni non mancano.

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