Politiche

Un recente rapporto Eggsi analizza i nodi dei sistemi sanitari europei in un'ottica di genere. Approccio indispensabile per alzare la qualità e l'efficacia della spesa. Ma che non deve dimenticare i vincoli finanziari

Che genere di sanità: le cure,
le politiche, la spesa

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Il rapporto “Access to Healthcare and Long-Term Care: Equal for women and men?(1)  analizza in un'ottica di genere i tratti salienti dei sistemi sanitari europei, sia sul lato delle prestazioni acute che long-term. Si tratta di un approfondimento trascurato nel dibattito, nonostante da qualche anno a  questa parte si siano intensificati i lavori sulla sanità, che è il settore del welfare nel quale comincia ad emergere il trade-off più complesso tra sostenibilità finanziaria, adeguatezza delle prestazioni ed equità nell’accesso. Le più recenti elaborazioni di Ecofin, Fmi e Ocse, oltre a quelle del CeRM(2) presso cui lavoro, mostrano, infatti, come nel medio-lungo periodo (2030, 2050) sarà questo il capitolo di spesa che farà registrare la dinamica più intensa, e metterà sotto pressione sia i sistemi beveridgiani che i sistemi bismarkiani.


Di fronte a questi scenari, è necessario approntare per tempo strumenti e soluzioni in grado di contemperare, bilanciandoli, obiettivi finanziari e sociali. Il rapporto Eggsi getta luce su una leva di governance sinora poco sviluppata o addirittura ignorata:  il targeting di genere delle terapie(3). Sarà necessario innalzare la qualità e l’efficacia della spesa, e una mappatura attenta e aggiornata dei bisogni soggettivi è un passaggio ineludibile. Nel rapporto si dà conto di quanta strada ci sia ancora da percorrere, soprattutto in Italia, sul piano della prevenzione, intesa sia come offerta di prestazioni diagnostiche specialistiche, sia come sviluppo di abitudini vita e di comportamenti virtuosi per la salute fisica e psichica. Per definizione, la prevenzione non può consistere in programmi generici, ma deve il più possibile articolarsi a seconda delle condizioni sociali ed economiche, delle urgenze così come si manifestano anche nel tempo e sul territorio, e differenziarsi a seconda delle patologie prevalenti. Per questo motivo, passare dalla prevenzione generica alla prevenzione di genere è sicuramente uno dei modi che aiuta a focalizzare l’attenzione e gli sforzi su obiettivi ben definiti, con possibilità di verificare i progressi in maniera concreta, funzionando anche come meccanismo di trasparenza e responsabilizzazione di politici e amministratori. Gli esempi delle varie best practice internazionali, cui il rapporto dà ampio spazio, testimoniano proprio questo. Il rapporto, inoltre, fa intendere come, di pari passo con la trasformazione multietnica, la prospettiva di genere possa diventare uno strumento importante per comprendere le nuove esigenze sanitarie e di cura e per favorire integrazione.


    Anche se il rapporto vi dedica solo l’ultima parte, altre indicazioni importanti emergono con riferimento al capitolo long-term, ovvero all’assistenza continuata ai non autosufficienti (o “Ltc”). Questa voce di spesa, a cavallo tra il sistema sanitario e quello sociale, presenta problematiche, tra le tante che solleva (“morbo di Baumol”, difficoltà di fare proiezioni, complessità di integrare prestazioni che sono competenza di soggetti istituzionali diversi, etc.), che possono essere colte soltanto approfondendo l’ottica di genere. Ad oggi, le prestazioni Ltc sono in gran parte sostenute in maniera informale dalle donne, all’interno dei nuclei familiari. Un lavoro spesso gravoso e totalizzante, che in alcuni casi può costringere ad abbandonare anzitempo la professione o a scegliere occupazioni part time. Ma, se il carico oggi pesa soprattutto sulle donne, di qui a 15-20 anni saranno soprattutto le donne ad esprimere domanda di prestazioni Ltc, come conseguenza del fatto che hanno una vita media più lunga. Sarà difficile che questa domanda venga soddisfatta informalmente nelle mura domestiche con l’appoggio del coniuge; e si dovrà fare di tutto affinché la cura domestica non venga affidata a prestazioni in nero di immigrati, e non ostacoli l’uscita di casa e la realizzazione professionale dei figli, anche perché pure in questo caso è probabile sarebbero le figlie più che i figli a doversi far carico dell’onere. Si porrà in maniera più evidente la necessità di rinforzare il presidio formalizzato e professionale, cambiamento sollecitato anche dal crescente contenuto tecnico e tecnologico delle modalità di assistenza, oltre che da ragioni di sicurezza e di rispetto delle persona umana. Ma con quali risorse? Si tratta di cure costose che, una volta accaduto l’evento inabilitante/invalidante, equivalgono di fatto all’erogazione di una rendita vitalizia che, per le sue proporzioni, non potrà essere addossata ai bilanci delle famiglie, se non a costo di creare pesanti sperequazioni sociali che oltretutto vedrebbero le donne, soprattutto quando sole e in età avanzata, in posizione svantaggiata per la condizione di maggior difficoltà occupazionale e di minori redditi che mediamente si trovano a fronteggiare nel corso della vita attiva.


Il rapporto lancia questi due messaggi di base: da un lato, la necessità di aumentare la qualità della spesa anche avvalendosi di una agenda di genere che potrebbe già contare su best practice internazionali; dall’altro, il richiamo a realizzare le condizioni per esser all’altezza di erogare prestazioni Ltc quando, nei prossimi anni, la domanda aumenterà e non sarà più possibile fronteggiarla nelle mura domestiche a carico delle donne. Su entrambi questi due messaggi non si può non esprimere totale condivisione. Ma con un caveat che mi sentirei di segnalare con riguardo all’impostazione generale del rapporto che, pur partendo dalla considerazione anche dei vincoli di bilancio e delle difficoltà che la scarsità di risorse crea ai sistemi sanitari nazionali, poi di questi aspetti non tiene, a mio avviso, sufficientemente conto quando si tratta di proporre possibili soluzioni realisticamente percorribili. Farei riferimento a tre snodi: l’universalismo selettivo; l’assegnazione di responsabilità per le politiche sanitarie di genere; e la differenziazione degli istituti di welfare e del loro finanziamento.


L’universalismo selettivo.
Sono convinto che una prospettiva di genere possa aumentare qualità ed efficacia delle politiche sanitarie e del complesso delle risorse dedicate alla sanità. Non credo che possa, da sola, rappresentare la chiave di volta per risolvere i problemi di equilibrio economico-finanziario, attuali e soprattutto prospettici. Anzi, nell’immediato e prima che si raccolgano i frutti di un targeting e di una articolazione migliore delle prestazioni, è probabile che l’introduzione di una agenda di genere porti con sé incrementi di spesa. Come fronteggiarli? È una ragione in più a sostegno della trasformazione dei sistemi universali da assoluti in selettivi, con l’introduzione di copay graduati, anche con esenzioni e abbattimenti, a seconda delle condizioni economiche e sanitarie del singolo e della famiglia(4). Universalismo selettivo e politiche di genere condividono una medesima finalità di base, perché sono entrambi strumenti di targeting e di responsabilizzazione. Anzi, affidare la selettività ad uno o più indicatori espressivi della condizione di disagio e di bisogno (come l’Ise, oggi applicato solo in parte) sarebbe, per certi versi, già una politica di genere, perché dando precedenza a soggetti relativamente deboli, finirebbe per individuare i casi di donne single, donne in famiglie numerose e con redditi bassi, donne in famiglie di immigrati, etc.. Gli interventi di genere sono un esempio e un caso specifico di interventi selettivi e  focalizzati.


L’assegnazione di responsabilità per le politiche sanitarie di genere.
Qui mi riferisco in particolar modo all’Italia, e al dibattito in corso su come ripartire il Fsn tra Regioni rispettando benchmark di efficienza. A mio avviso, le regole di riparto devono essere scelte per essere semplici, trasparenti e stabili, sottratte a bargaining opportunistici tra Stato e Regioni e compatibili con la tempistica dei documenti di finanza pubblica nazionali ed europei. Devono, per questo motivo, muoversi il più possibile ad un livello aggregato, facendo riferimento a pochi significativi indicatori. Mi sembra molto difficile che queste regole possano incorporare, almeno in questo stadio di avvio del federalismo, politiche di genere, oltretutto differenziate sul territorio. Il rischio è che tutti comincino a chiedere più risorse perché intravedono la necessità di programmi di genere, con profili ad hoc per il loro bacino e per le caratteristiche della loro comunità. Mentre più plausibile è che siano le Regioni, a valle dell’assegnazione della quota di spettanza del Fsn (che poi in ottica federalista significherà gettiti maturati sul territorio integrati dalla perequazione interregionale), ad assumersi la responsabilità dell’agenda sanitaria che deve realizzare i Lea (i livelli essenziali di assistenza sanitaria), definendo ordini di priorità e magari anche coordinando gli interventi degli enti locali sui Lep in ambito sociale e socio-sanitario (i livelli essenziali delle prestazioni sociali e socio-sanitarie)(5). In altri termini, mi sembra che sia, questo, uno di quegli ambiti in cui far svolgere la sussidiarietà, arrivando a coinvolgere anche direttamente l’associazionismo dei cittadini. È una mia impressione e son lungi dall’avere ricette pronte; tanto più che sugli standard di spesa e sulle regole di riparto si sta ancora discutendo nelle sedi istituzionali (Parlamento, Governo, Conferenza Stato-Regioni).  


La differenziazione degli istituti di welfare e del loro finanziamento.
Così come mi sembra realizzare obiettivi di genere la selettività dell’universalismo, allo stesso modo vedo la differenziazione degli istituti di welfare. Oggi, in Italia ma anche in altri Paesi soprattutto di tradizione mediterranea, sono gravemente sottosviluppate prestazioni che, pur non rientrando nel perimetro del sistema sanitario in senso stretto, sono importanti per il mantenimento della salute psicofisica e per la qualità della vita. Si tratta di istituti in grado di intervenire in sincronia con i bisogni e le aspirazioni lungo tutta le fasi della vita, e comprendenti prestazioni, sottoforma di servizi o di erogazioni monetarie,  per la maternità, i minori, i diversamente abili, il mantenimento della casa di abitazione, la conciliazione vita-lavoro, il sostegno per situazioni di disoccupazione e per l’inserimento/reinserimento professionale. Le donne, per la posizione di debolezza sul mercato del lavoro e per il carico assistenziale che svolgono informalmente nelle famiglie, sono maggiormente colpite, rispetto agli uomini, dalla mancanza di queste componenti essenziali di un welfare system moderno. Differenziare gli istituti di welfare significa, a mio modo di vedere, anche fare politiche welfariste di genere. Gli interventi di differenziazione degli istituti non possono prescindere dal ridisegno dei meccanismi di finanziamento e sarà necessario, se si vuole muovere in questa direzione, combinare risorse pubbliche e risorse private. Le prime a presidio delle prestazioni a carattere redistributivo, i Lea sanitari e i Lep sociali. Le seconde complementari per: l’integrazione delle pensioni; la copertura del copay; la copertura delle prestazioni sanitarie e socio-sanitarie per i soggetti a reddito elevato che, in una prospettiva di universalismo selettivo, non avranno accesso al finanziamento pubblico. La prestazioni Ltc rientrerebbero in quest’ultima categoria dal momento che, per il loro costo unitario e il potenziale di domanda atteso nei prossimi anni, il loro Lea non potrà che essere molto selettivo, se si vuole governare in maniera responsabile il welfare e non accontentarsi di sole attestazioni formali.


Concludendo: ho trovato molto interessante il rapporto, ricco di dati e di argomentazioni. Per la prossima release sarebbe utile, forse, dedicare un po’ più di spazio a come le soluzioni di policy possono fronteggiare il problema del reperimento delle risorse. Senza dubbio non è una cosa semplice e, soprattutto, è un approfondimento che andrebbe il più possibile calato nelle singole realtà nazionali. Non è detto, però, che non si possano lanciare delle policy guideline, come i tre snodi che ho sinteticamente riportato oppure altri. Le politiche di genere aprono di certo nuove potenzialità per la qualità e l’efficacia degli istituti di welfare, ma devono collocarsi anche loro all’interno di un quadro organico dei sistemi di sicurezza sociale, completato nei raccordi funzionali e istituzionali e compatibile con gli equilibri macrofinanziari.

 

Note

(1) Redatto per la Commissione Europea dal network EGGSI, coordinato da Marcella Corsi e Manuela Samek Lodovici.
(2)  Per un riepilogo delle proiezioni di  medio-lungo termine, cfr.: Pammolli F. e N. C. Salerno (2009), “Spesa sanitaria: quali ipotesi per quali proiezioni? Ecofin e Ocse a confronto”; e Salerno N. C. (2010), “Dove va la spesa sanitaria? Dai trend di spesa ai tasselli di una nuova governance”, relazione presentata al Convegno Aies tenutosi a Torino nell’Ottobre 2010.

(3) Si segnala, a questo riguardo, la recente pubblicazione dell’Agenas con focus sulla medicina di genere: Monitor – Agenas n. 26 di Novembre 2010.

(4) L’universalismo assoluto si fonda sul principio della totale gratuità delle prestazioni. Di fronte alla dinamica di spesa proiettata per prossimi anni, la gratuità erga omnes non sarà più sostenibile, e sarà necessario introdurre delle regole di priorità di accesso oggettive, eque e non discriminatorie. Questa regole trasformerebbero l’universalismo da assoluto in selettivo. Una delle soluzioni è quella di mantenere la totale gratuità per gli individui con pochi mezzi economici, e di chiedere che gli altri concorrano alla copertura dei costi delle prestazioni fruite con importi crescenti a secondo del livello del loro reddito/patrimonio. Per possibili approfondimenti sul tema, cfr. Pammolli F. e N. C. Salerno (2006), “Il copayment a difesa del sistema sanitario universale”.

(5) I livelli essenziali rappresentano quell’offerta di prestazioni sanitarie, sociali e socio-sanitarie che, integrando valori di cittadinanza e concorrendo a realizzare obiettivi costituzionali, deve essere erogata in maniera uniforme sul territorio nazionale. In sanità questi livelli prendono in nome di Lea, mentre per le prestazioni sociali si usa l’acronimo Liveas, e per le prestazioni socio-sanitarie (a loro volta suddivise in quelle a prevalenza sociale e quella prevalenza sanitaria) si parla di Lep. Lep è anche l’acronimo che si può utilizzare per indicare il complesso dei livelli essenziali che danno sostanza al welfare sistema pubblico (indipendentemente dalla tipologia di prestazioni cui si riferiscono). Per una descrizione più approfondita, cfr. Pammolli F. e N. C. Salerno (2010), “L'integrazione pubblico-privato nel finanziamento della sanità e dell'assistenza alla persona”, e in particolare lo schema di pagina 47.