Politiche

Partecipazione femminile e politiche di genere in Italia. Alcuni spunti dal laboratorio promosso a maggio dagli Stati generali delle donne a Roma

Donne che partecipano,
spunti dagli Stati generali

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Foto: Flickr/ Robert Couse-Baker

I tempi della politica, malgrado le tante e lunghe battaglie che sono state fatte in questi anni, non sono mai stati adeguati ai tempi delle donne. Questo è solo uno degli spunti del laboratorio di politiche di genere promosso dagli Stati generali delle donne, associazione nata nel 2013 sotto la guida di Isa Maggi, che si è tenuto a Roma lo scorso 4 maggio. L’obiettivo era quello di chiamare all’appello tutte le donne che hanno voglia di partecipare attivamente alla vita politica e dialogare con quelle che hanno già avuto esperienza nel settore, per riflettere sull’importanza di una maggiore presenza delle donne in politica.

Il punto è che tale questione non deve fermarsi a una riflessione meramente quantitativa, ma deve muoversi verso una valutazione soprattutto qualitativa: occorre comprendere in quali termini questa possa fare la differenza dal punto di vista della progettualità che viene messa in campo. 

È importante che le donne facciano rete: occorre uscire dai recinti delle proprie categorie, per cercare di dare, ognuna secondo le proprie competenze e attività, un contributo significativo alla battaglia per le pari opportunità.

La presenza stessa delle donne, soprattutto nei ruoli di gestione della cosa pubblica, ha una capacità trasformativa, grazie anche al pragmatismo che caratterizza il loro agire. Ma per quale motivo l’Italia ancora non riesce ad esprimere in politica una leadership femminile? Sicuramente incide molto quel retaggio culturale e storico che caratterizza il contesto italiano, perché le donne sono meno radicate, essendo entrate a fare politica da meno tempo rispetto agli uomini. 

La politica, rappresenta il punto debole per le donne in Italia, come dimostrano diversi report a livello internazionale. Nell'indice di uguaglianza di genere fornito dallo European Institute for Gender Equality, in una scala che va da 1 (nessuna uguaglianza) a 100 (massima uguaglianza) l’Europa si posiziona a 52,9. Le punte di eccellenza sono rappresentate da paesi scandinavi con la Svezia a 74,2. L' l'Italia invece si posiziona a 41,1. Ma se ci focalizziamo sul potere politico, scendiamo immediatamente a valori inferiori al 20. 

Un altro indice molto significativo è quello fornito dal World Economic Forum attraverso il Global Gender Gap: l'Italia si posiziona qui al cinquantesimo posto su 144 paesi, ma se si analizza in modo disaggregato il dato della partecipazione politica, si posiziona al 25esimo posto: ancora una volta la politica è il nostro punto debole.

Anche se l'Italia ha un Pil di tutto rispetto siamo sempre il fanalino di coda per quanto riguarda le questioni di genere. Questo non si giustifica, i nostri mezzi finanziari dovrebbero dare anche la spinta per attuare gli investimenti a supporto delle donne.

Oltre la politica, anche la pubblica amministrazione necessita di una visione diversa declinabile in un'ottica di genere. Occorre sottolineare il suo ruolo trainante per l'inserimento lavorativo delle donne, anche grazie al Testo unico sul Pubblico Impiego: ad oggi sono donne il 55% del totale dei dipendenti del pubblico impiego. Permangono comunque ostacoli di carriera per le donne: su 245 posizioni apicali nei ministeri 161 sono occupate da uomini e 84 da donne.

Nell’ambito della pubblica amministrazione, in Italia è stata promulgata nel 2007 la nota direttiva Nicolais-Pollastrini che ha dato indicazioni ben precise su come attuare il principio delle pari opportunità. Ma quali sono gli strumenti ad oggi presenti nella pubblica amministrazione per agire in un'ottica di genere? Ne possiamo individuare principalmente tre: i Comitati unici di garanzia, il lavoro agile e il bilancio di genere. 

L’importanza dell’uguaglianza di genere e dell'empowerment delle donne è stata sottolineata anche con l’inserimento del quinto obiettivo dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, obiettivo che si rivela trasversale agli altri 16 presenti. Per valutare l'adempimento di questi obiettivi da parte di tutte le politiche occorrerà attuare un monitoraggio dei dati attraverso la loro disaggregazione, perché solo così potrà essere visibile la discriminazione verso le donne.

E se a livello internazionale vi è una sempre maggiore coesione sulla questione del genere, a livello nazionale, si registra un forte scollamento dovuto all’incapacità delle donne di aggregarsi su punti fondamentali come quello legato alla maternità: le unioni civili, la maternità surrogata, il cognome materno.

Rispetto a quest’ultimo, dal 2016 esiste la possibilità per le madri di dare il proprio cognome ai figli: è stata dichiarata l’illegittimità della norma che prevede l’automatica attribuzione del cognome paterno al figlio legittimo in presenza di una diversa volontà dei genitori. 

Il problema è che deve intervenire il Parlamento con una legge, nonostante la giurisprudenza costituzionale ci dica chiaramente che il cognome abbia la funzione di strumento identificativo della persona e in quanto tale costituisca parte essenziale e irrinunciabile della personalità. È importante che i genitori possano scegliere se dare entrambi i cognomi, perché i figli possano veramente mettere sullo stesso piano il padre e la madre. 

Il percorso storico delle pari opportunità è molto lungo e complesso come analizza il libro Cinquant'anni non sono bastati. Le carriere delle donne a partire dalla sentenza n. 33/1960 della Corte costituzionale, scritto da Annamaria Isastia e Rosa Oliva.

Il volume racchiude un insieme di riflessioni sulle carriere e sui destini delle donne italiane a partire dalla sentenza che segnò l'inizio delle modifiche legislative che hanno portato all'eliminazione delle discriminazioni contro le donne per l'accesso alle carriere pubbliche. 

La Corte Costituzionale, su ricorso di Rosa Oliva, nella sentenza n. 33 del 1960, dichiarò l'illegittimità costituzionale della norma contenuta nell'art. 7 della legge 17 luglio 1919, n. 1176, che recitava che le donne sono ammesse "a pari titolo degli uomini, ad esercitare tutte le professioni ed a coprire tutti i pubblici impieghi", tranne per "quelli che implicano poteri pubblici giurisdizionali, o l'esercizio dei diritti o potestà politiche, o che attengono alla difesa militare dello Stato".

Oltre alle carriere pubbliche, nel libro si sottolinea come anche altri campi siano stati oggetto di esclusione delle donne, è il caso della toponomastica. Nel 2012 Maria Pia Ercolini ha fondato l’Associazione Toponomastica Femminile con l’obiettivo “di impostare ricerche, pubblicare dati e fare pressioni su ogni singolo territorio affinché strade, piazze, giardini e luoghi urbani in senso lato, siano dedicati alle donne per compensare l'evidente sessismo che caratterizza l'attuale odonomastica”.

L'importanza di progetti come questo sta nel nominare, che per esistere è fondamentale: ci sono tante donne non riconosciute che sono state dimenticate, cancellate. 

Un altro testo molto interessante che analizza la questione di genere, questa volta in relazione ai media, è il libro curato da Laura Moschini, Gli stereotipi di genere. Dalla comunicazione mediatica al mondo del lavoro, e include i contributi di Francesca Brezzi, Lisa Castaldo, Cristina Michelini, Graziella Rivitti: “Vi è una  pervasività delle nuove reti di comunicazione globale che influenzano sia le politiche governative ma anche i comportamenti degli individui. In tal senso si evidenzia la necessità che i mezzi di comunicazione forniscano una rappresentazione equilibrata della diversità della vita delle donne e del loro contributo alla società e si creino dei sistemi di autoregolamentazione dei media e si rafforzino quelli già esistenti". 

Nel libro si parte dal concetto di stereotipo, termine coniato nel 1798 da un tipografo per descrivere le operazioni di stampaggio multiplo effettuate da una singola forma. Da tale immagine, si sono estesi ampi significati figurati, che hanno da sempre accompagnato la figura femminile in molteplici contesti: dalla tv ai giornali, al web, lo stereotipo su muove attraverso le immagini. In tal senso i media rivestono un ruolo fondamentale per l'immagine delle donne che viene veicolata, e ci sarebbe necessità di una maggiore regolamentazione a riguardo. 

Quello che emerge da questi spunti è che in molti settori, e soprattutto in politica, le conquiste per le donne non durano per sempre: vanno continuamente alimentate e stimolate, soprattutto attraverso una sempre maggiore e migliore presenza all’interno delle istituzioni.