Grassofobia e disturbi alimentari sono due questioni intrinsecamente connesse, ma non riguardano, come spesso ancora si crede, un problema individuale. Tre autrici femministe ci aiutano a capire che l'ossessione per la magrezza è un fenomeno di portata politica
A maggio 2020, la Rai ha mandato in onda la prima puntata della docuserie Fame d'amore, diretta da Andrea Casadio e condotta da Francesca Fialdini, che racconta le vite di giovani ragazze e ragazzi in cura per disturbi del comportamento alimentare in vari centri specializzati sparsi per l'Italia.
La maggior parte dei pazienti è una donna, e benché queste ragazze abbiano subito traumi di diversa natura, nei loro racconti torna quasi sempre lo stesso dato: quello di aver dovuto far fronte a una forte pressione familiare, sociale o autoimposta a essere perfette, in tutti i campi della loro vita. Molte si definiscono studentesse eccellenti, e la maggior parte confessa di esser stata vittima di bullismo. Eppure, mentre le ragazze fanno terapia di gruppo, nessuno le incoraggia a chiedersi perché le loro storie si somiglino così tanto e, soprattutto, perché la loro ossessione si concentri proprio sul cibo e sulla magrezza.
Sono passati cinquant'anni dalla nascita del primo movimento per l'accettazione del corpo grasso, e viviamo in un'era in cui il tema della "grassofobia" (quell'atteggiamento di repulsione e discriminazione nei confronti delle persone grasse o considerate tali, ndr) sembra aver raggiunto l'apice della popolarità sui social media. L'hashtag #bodypositivity conta più di 7,3 miliardi di visualizzazioni su TikTok, la piattaforma social preferita dalla generazione Z (quella, cioè, delle persone nate tra il 1997 e il 2012).
Eppure, appare ugualmente difficile rendere conto dell'aumento del 40% delle persone affette da disturbi alimentari solo nei primi sei mesi della pandemia. Secondo i dati diffusi nel 2022 dall'Istituto superiore di sanità, un incremento è stato registrato anche nel numero di pazienti di sesso maschile affetti da questi disturbi, e la diagnosi più comune, per pazienti di entrambi i sessi, è di anoressia o bulimia, che in alcuni casi possono manifestarsi insieme.
A fronte di questi dati, viene spontaneo chiedersi perché i messaggi portati avanti da specialiste e attiviste impegnate attivamente nel contrasto alla grassofobia, facciano difficoltà ad affermarsi in contesti pubblici come i social media. Il punto è che si fa ancora fatica a parlare del dilagare del culto della magrezza come di un fenomeno collettivo e di portata politica.
Questo tipo di ossessione per il cibo e per i suoi effetti sul corpo si ritrova infatti nei contesti più comuni di vita vissuta. Per citare un'esperienza personale, è bastato un giovedì qualsiasi in palestra, alla prima lezione di pugilato, per passare senza soluzione di continuità da uno scambio di informazioni tecniche a un confronto sui risultati fisici che le altre partecipanti al corso volevano ottenere, senza che nessuna mostrasse, al riguardo, alcun segno di sorpresa. Era quindi considerato "normale" che le due ragazze più brave del gruppo eseguissero esercizi complessi e faticosi perseguendo l'obiettivo di guadagnarsi di lì qualche mese un fisico invidiabile, di asciugare il grasso giusto in tempo per la "prova costume" dell'estate successiva.
Del resto, basterebbe ripensare ai tempi del liceo, dove lo stare ossessivamente a dieta per le ragazze era una pratica consolidata ma taciuta: nonostante si vedessero in giro corpi sempre più smagriti, discuterne esplicitamente era un tabù. Tuttavia, esisteva un forte distacco tra l'esplicitazione semipubblica del piano alimentare e l'esecuzione privata dei metodi drastici che si credeva favorissero il dimagrimento.
Certo, in alcune scuole, se i dirigenti scolastici si accorgevano dell'esistenza, tra le ragazze, di un problema di natura alimentare, potevano decidere di attivare iniziative di prevenzione – come è accaduto nel liceo che ho frequentato, dove una volta l'anno veniva organizzata una conferenza, a partecipazione facoltativa, durante la quale due membri del personale sanitario si presentavano in una sala del teatro adiacente al liceo per parlare dei disordini alimentari riconosciuti dal Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-5), soffermandosi sulle loro concause psicopatologiche e sui metodi per favorirne la prevenzione e la guarigione.
Nel frattempo però, e nonostante i traumi individuali di alcune, mentre le ragazze trascorrevano ore e ore su Tumblr, neanche dieci anni fa, erano tutte ben consapevoli di ciò che stavano facendo volontariamente ai loro corpi, così come dei privilegi conferiti alle persone fisicamente belle e magre. Più tardi, in Inghilterra, dove mi sono laureata, le mie compagne di corso, aspiranti studiose femministe, avrebbero parlato di diete e disturbi alimentari solo nei saggi da consegnare a fine semestre, confermando in qualche modo lo stesso dato: ciò che una donna fa al proprio corpo in risposta ai traumi del suo vissuto o alla pressione sociale e mediatica di ottenere o mantenere un fisico esile è una questione da affrontare in maniera individuale e privata.
La copertina del libro di Naomi Wolf, Il mito della bellezza, portato in Italia da Edizioni Tlon
Per strutturare una riflessione più ampia su questi temi, sono almeno tre i libri che possono venirci in aiuto: The beauty myth (1990) di Naomi Wolf; Unbearable weight: feminism, western culture, and the body (1993) di Susan Bordo; Fearing the black body: the racial origins of fat phobia (2019) di Sabrina Strings. Al momento, l'unica opera disponibile in italiano è quella di Naomi Wolf, grazie all'impegno e al lavoro della casa editrice Tlon, in particolar modo di Maura Gancitano, Marisa Castino Bado e Jennifer Guerra che ne hanno curato l'edizione italiana – Il mito della bellezza (2022).
Nel suo libro, Naomi Wolf, scrittrice, giornalista ed esponente della terza ondata femminista americana, presenta la fame, conseguenza principale della dieta, come uno dei metodi utilizzati nelle società patriarcali occidentali per mantenere le donne (e non solo) in una posizione subalterna rispetto agli uomini: se una donna è costantemente preoccupata del suo aspetto, avrà molto meno spazio psichico e forze fisiche per aggregarsi alla lotta collettiva contro ogni tipo di oppressione di stampo patriarcale. Gli argomenti di Wolf vengono spesso citati nella letteratura che punta a criticare l'impatto delle strategie di marketing delle industrie della bellezza sulle popolazioni femminili occidentali. È rilevante specificare, per chi desidera approfondire il tema del controllo sul corpo femminile, che il volume offre riflessioni che vanno al di là del ruolo delle diete. L'autrice identifica infatti i diversi modi nei quali si declina la pressione sociale esercitata sulle donne a preoccuparsi del loro aspetto fisico, come la democratizzazione della chirurgia estetica, dei cosmetici, della moda e la normalizzazione di determinati comportamenti nei media e nelle politiche del lavoro. Nel suo libro, Wolf fornisce dati che mostrano come il fantasma dell'adesione "virtuosa" e, perlomeno parzialmente, necessaria agli standard di bellezza perseguiti le donne in tutti gli aspetti della loro vita, dall'ufficio alla camera da letto.
Fearing the black body: the racial origins of fat phobia di Sabrina Strings, professoressa di studi afroamericani dell'Università della California, delinea invece un excursus genealogico sull'ossessione per la magrezza in Occidente, dal quale si evince che le origini dell'epidemia del culto della magrezza risalgono all'inizio della tratta transatlantica degli schiavi e all'epoca della diffusione in Europa dell'etica protestante. Fortemente radicata in una prospettiva dualistica, gerarchica e asettica della corretta organizzazione della società, il culto del corpo magro nasce in un periodo storico in cui intellettuali e scienziati occidentali elaboravano e diffondevano teorie pseudo-scientifiche volte a giustificare l'inequivocabile superiorità dei bianchi rispetto ai neri, degli uomini rispetto alle donne e delle donne bianche rispetto alle nere. Dalla fine del XVI secolo in poi, si assiste al consolidamento dell'idea per cui chi riesce a governare il corpo, elemento fisico associato al femminile e ai popoli non occidentali e a tutti i desideri e bisogni a esso collegati, è dotato di superiorità intellettuale e morale. Non a caso, all'inizio erano proprio gli uomini a essere incoraggiati a mettersi a dieta.
È interessante notare che oggi, come specificato nel libro di Wolf, la maggior parte delle ragazze malate di anoressia sono bianche e di buona famiglia. Si tratta di quelle donne che, più di altre, si trovano in prossimità degli apici del potere e poco distanti dall'accesso a posizioni di alto livello, spesso occupate da uomini bianchi e ricchi. In questo contesto, la dieta diventa così lo strumento privilegiato per comunicare visivament la propria appartenenza alla classe dirigente, il corpo magro il paradigma della volontà di quella stessa classe sociale di rendere esteticamente visibile la propria superiorità intellettuale, morale ed economica.
Particolare della copertina del saggio di Sabrina Strings Fearing the black body, excursus genealogico sull'ossessione per la magrezza in Occidente
Quest'ultimo argomento viene ripreso anche da Susan Bordo, filosofa e docente di studi di genere all'Università del Kentucky, che nel suo Unbearable weight: feminism, western culture, and the body analizza documenti multimediali usando teorie psicanalitiche e sociologiche. Anche Bordo, come Wolf, evidenzia come le ragazze affette da disturbi alimentari di tipo restrittivo con le quali si è confrontata siano tutte eccellenti studentesse, con accesso a maggiori opportunità rispetto alle loro madri; giovani donne a cui è stato permesso di accedere ad attività e spazi che erano precedentemente esclusivi degli uomini, ma che, a livello strutturale, sono cambiati poco per accoglierle. Ragazze che, allo stesso tempo, vengono bombardate da messaggi mediatici che le valutano prevalentemente in base al loro corpo e alle loro capacità riproduttive. L'autrice sottolinea inoltre come molte delle sue allieve si siano ammalate non per volontà di raggiungere l'ideale di bellezza che le aveva spinte a cominciare una dieta, ma per aver sviluppato una dipendenza dal falso senso di controllo derivato dalla dieta stessa.
Il libro di Bordo si basa su dati raccolti negli anni Ottanta; secondo l'autrice, la dieta è uno strumento tramite il quale le ragazze cercano di tenere a bada tanto il fantasma del ruolo della "madre voluttuosa soggiogata al ruolo di casalinga", quanto quello della "donna desiderante e moralmente inferiore", che impedirebbe loro di essere prese in considerazione nella sfera pubblica (e maschilista). Come spiega bene Wolf, la dieta intesa in senso restrittivo finisce tuttavia per rivelarsi un meccanismo di difesa fallimentare, poiché indebolisce sia fisicamente sia mentalmente chi la segue a causa della mancanza di nutrienti, distraendo al contempo dalle cause socio-economiche e politiche del proprio malessere.
Dalle analisi di Wolf, Bordo e Strings si comprende come cadere nella trappola dell'industria della dieta sia la diretta conseguenza di un sistema che ancora fatica ad accettare una piena emancipazione delle persone e dei corpi. Se il culto della magrezza non è una moda dei nostri tempi, si rende quindi necessario accantonare l'indignazione, per mettere al primo posto analisi che forniscono nuovi e più complessi livelli di lettura del fenomeno.
Nel contesto socio-politico ed economico globale contemporaneo, prevenire lo sviluppo di disturbi alimentari restrittivi da un punto di vista individuale non è più sufficiente; occorre invece sviluppare concretamente una coscienza politica tale da riplasmare le pratiche di strutture pubbliche e private, affinché nessuna senta il dovere di occupare meno spazio per ottenere più potere, e restando comunque al proprio posto.