Torna la giornata del "lavoro agile", un esperimento promosso dal Comune di Milano per diffondere e incentivare pratiche di conciliazione tra lavoro e vita. Almeno 7.000 le persone coinvolte, ne parliamo con l'assessora Chiara Bisconti

Lavorare da casa, o dal bar, o dalla biblioteca di quartiere. O dalla piscina, prima o dopo una nuotata. Almeno 7.000 persone, per un giorno, faranno un esperimento del genere. Si tratta della seconda giornata del “lavoro agile”, iniziativa voluta dal Comune di Milano per diffondere e incentivare pratiche di conciliazione tra lavoro e vita. Un esperimento lungo un giorno (il 25 marzo), che coinvolgerà un centinaio di aziende e un buon numero di pubbliche amministrazioni. Ne parliamo con Chiara Bisconti, assessora al Benessere, Tempo libero e Qualità della vita; che di conciliazione e gender balance si è occupata anche prima di entrare nella giunta milanese, da manager delle risorse umane nel ramo italiano della multinazionale Nestlé.
Settemila persone sono tante, ma sono anche pochissime nella capitale economica italiana. Qual è il senso della giornata del lavoro agile? Ha un valore simbolico-culturale, o anche qualche conseguenza pratica?
Tutti e due. Direi che ha soprattutto il valore di un esperimento. Uno dei blocchi principali al lavoro agile è nella chiusura mentale dei manager. Le aziende stanno sulla difensiva. Bisogna abbattere questa resistenza, e il modo migliore è farle provare. Invece di raccontare la bontà del lavoro agile, dello smart working, della conciliazione, della flessibilità buona, gliela facciamo provare. Anche solo per un giorno, l’esperimento dimostra che questo nuovo modo di lavorare porta vantaggi per tutti, a cominciare dalle imprese: vantaggi di costo, per cominciare. È paradossale che i manager facciano tanta resistenza, essendo loro i primi che fanno lavoro agile: lavorano da fuori, in viaggio, da casa. Ma non si fidano del fatto che possano farlo anche gli altri, restano ancorati a una gestione de personale a vista, con controlli: una vecchia gestione, da superare. Una prova sul campo, oltre che i dati di molte ricerche, dimostra che se le persone possono autodeterminarsi tempi e spazi di lavoro, ci guadagnano tutti.
Qual è il mondo più rappresentato tra coloro che si candidano al “lavoro agile”? Si tratta di chi lavora dietro un computer?
La sensibilità maggiore è venuta dal mondo delle multinazionali, del resto abituato a queste pratiche in altri contesti. Quest’anno si sono avvicinate anche molte imprese piccole, e una larga fascia di start up. Inoltre, gradualmente sta arrivando il settore della pubblica amministrazione: questo è molto importante, perché è un mondo più rigido, che di solito si muove a fatica. Ma è anche un settore nel quale ci sono pochissimi strumenti per incentivare il personale, in termini di carriere e premi monetari: la modalità di lavoro può diventare un modo per gratificare i dipendenti. Quanto alle tipologie di lavoro: sono per lo più impiegati e impiegate, ma questo non toglie che può partecipare anche chi fa un lavoro più operativo, per esempio per ore dedicate alla formazione, oppure a progetti specifici. Più che una modalità specifica, il lavoro agile è una filosofia di vita.
Come si svolge materialmente? Chi sceglie i lavoratori “agili”?
Le forme specifiche sono libere, lasciate all’organizzazione del singolo datore di lavoro. Ci si basa sul fatto che c’è un patto di fiducia tra chi organizza il lavoro e i dipendenti. Noi per esempio, come Comune di Milano, abbiamo fatto una chiamata a tutti i dipendenti, per sapere chi vuole partecipare. Non solo: abbiamo indicato dove sono le postazioni vuote, perché qualche altro dipendente è fuori per qualsiasi motivo. Dunque, si può lavorare da casa ma anche da un altro ufficio, che magari è più comodo perché più vicino a casa oppure nella cerchia dei propri spostamenti.
Quali sono stati i risultati della prima edizione della giornata del lavoro agile, lo scorso anno?
Hanno partecipato in cinquemila, metà uomini e metà donne. Abbiamo misurato alcuni effetti: il più impressionante è quello sull’ambiente, viene fuori che ciascuno di loro, in media, ha risparmiato spostamenti per 23 chilometri a tratta (cioè 46, tra andata e ritorno casa-lavoro). In termini di tempo, hanno risparmiato due ore ciascuno.
Come le hanno impiegate?
Qui i risultati sono i più diversi: chi si è riposato, chi si è dedicato a esigenze familiari, chi è andato a prendere i bambini a scuola, chi ha lavorato di più. Molti hanno detto (e questa cosa mi pare interessante) di essersi dedicati ad attività sul proprio territorio: un’associazione, un appuntamento di quartiere, cose simili.
C’è una differenza, nell’uso di quelle due ore “libere” fatto dalle donne e dagli uomini?
Non sostanziale. Forse c’è una piccola percentuale di donne in più che si è dedicata ad attività di cura, ma non c’è una differenza marcata. Il fatto stesso che abbiano partecipato in eguale misura donne e uomini mi pare un grande successo, è nello spirito di questa politica, come spesso succede alle politiche che nascono da un’istanza di genere: sono le donne ad aver portato queste istanze e questi bisogni – sui tempi di vita, sulla conciliazione con il lavoro -, e ne godono tutti.
Ci sono ostacoli di natura normativa, burocratica, procedurale al lavoro agile? Telelavoro e smart working sono ancora i grandi assenti dell’attuazione delle deleghe del jobs act, questo pesa sulla loro attuazione?
Il lavoro agile non è disciplinato, manca per esempio una specifica previsione sulla copertura assicurativa, sulla sicurezza. Secondo molti giuristi, la legge sul telelavoro è un quadro di riferimento certo, poiché parla di “telelavoro mobile” e prevede un accordo aziendale di secondo livello. E nella società reale molte aziende si sono già mosse, per esempio stipulando assicurazioni private aggiuntive.
Cosa può fare la pubblica amministrazione per diffondere il lavoro agile, per sostenere chi lo chiede e aiutare le imprese riluttanti?
Prima di tutto dobbiamo dare l’esempio, far vedere che noi anche al nostro interno lo facciamo, che si è rotto un tabù. E poi, è essenziale fornire alla città le infrastrutture che ospitino il lavoro agile: gli spazi. Qui a Milano abbiamo una grande estensione degli spazi di coworking, e in molti hanno aderito alla nostra giornata. Si è inaugurato il primo spazio di lavoro agile in una piscina, la Cozzi: per lavorare prima o dopo una nuotata, o mentre si aspettano i bambini al corso di nuoto.
Che dire della massa dei nuovi lavori che di per sé non hanno una sede? I tanti che lavorano da casa, come autonomi, atipici, freelance, “agili” per definizione, a volte non per scelta?
Questa iniziativa è rivolta ai datori di lavoro, permette alle persone di lavorare fuori dalle aziende, da casa o da altri posti. Il mondo del lavoro non dipendente ha altri problemi, diversi, a volte opposti: il possibile isolamento del lavorare da casa, la necessità di mettersi in circolo, fare rete con altri. È chiaro che se una città si attrezza per il lavoro agile, la presenza di questi spazi è un’opportunità anche per i non dipendenti.