Politiche

In un paese dai mille contrasti si è consumato un terribile fatto che, negli ultimi giorni, è salito al centro della cronaca internazionale. Una splendida testimonianza di chi, da alcuni anni, lavora per il recupero di donne vittime della tratta dal paese più ricco e religioso dell’Africa.

Per le ragazze nigeriane
300 di queste campagne!

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Ho lavorato per tre anni alla realizzazione di un progetto per il recupero delle donne vittime di tratta in Nigeria, come sociologa. Sono stata tante volte in quel paese, ho conosciuto molte persone, e ho apprezzato la vera natura multiculturale della Nigeria. È una federazione di 36 stati, immensa, ricca di foreste e di paesaggi desertici, abitata da gente giovane e piena di energia. È il paese più popoloso dell’Africa, ed è stata riconosciuta come la più grande economia del continente proprio il mese scorso, quando gli istituti internazionali hanno verificato che il suo prodotto interno lordo ha superato quello del Sudafrica (1). È un paese dalle potenzialità immense, governato direi malissimo, soprattutto con la corruzione, è una nazione ricca di contrasti e di contraddizioni. Nella capitale, Abuja, ci si sposta su grandi strade, ci sono grandi spazi e grandi distanze, edifici moderni e centri commerciali. Manco da due anni: non so bene come sia cambiata l’atmosfera, ora.

Mi ricordo che, nel 2012, mi stupivo della grande capacità di convivenza di persone di lingue, razze e religioni diverse. Capitava di sentire il richiamo del muezzin, di vedere le persone accorrere a frotte verso la moschea all’ora della preghiera e incontrare intanto gruppi di suore col vestito azzurro-blu, in controcorrente.
La Nigeria è stata classificata, insieme al vicino Ghana, come il paese più religioso del mondo (2). Qui le due principali religioni monoteiste, che sono molto radicate, convivono tranquillamente con le religioni animiste tradizionali. Mi ricordo che in macchina o nei minibus, nei lunghi viaggi sulle strade di terra rossa, i miei compagni e compagne spesso intonavano canzoni religiose, allegre. Ricordo anche che prima di cominciare le nostre riunioni di lavoro più numerose, quelle con dieci o venti persone provenienti da ambiti lavorativi diversi – ad esempio assistenti sociali, funzionari locali o governativi, professori di università, avvocati, capi tradizionali – c’era spesso un momento di raccoglimento: si ascoltava tutti una specie di preghiera. Chi stava in cima alla tavola, o chi si offriva per primo, diceva un paio di cose, dava degli auguri, di qualunque religione lui o lei fosse. Questo dava un vero senso di unità, di partecipazione, prima di cominciare a lavorare insieme. Per me, che non sono credente, era un momento molto bello. E una volta è toccato dirli pure a me, i miei pensieri: un ringraziamento per esserci, lì, tutti insieme: è questo che si esprime in quelle circostanze.

Molte persone in Nigeria parlano tra loro in inglese perché non hanno una lingua comune, sono cresciute in stati nigeriani differenti, e hanno vissuto in posti diversi, a volte anche molto lontani tra loro. Di solito chi si è spostato parla correntemente almeno tre o quattro lingue. Negli anni Settanta, dopo la guerra civile, la cosiddetta guerra del Biafra (1967-1970), i giovani sono stati infatti spinti dal governo federale a fare i propri studi universitari o ad andare a lavorare in uno stato diverso dal proprio: a trasferirsi da Nord a Sud, da Est a Ovest, e viceversa. I giovani laureati solitamente trovano lavoro dove hanno studiato, e lì si fermano. Viaggiare in Nigeria non è facile se non si prende l’aereo, perché le distanze sono lunghe, le strade sono difficili e pericolose: non si viaggia volentieri. Eppure gli spostamenti sono sempre grandi, sembra esserci un’attitudine allo spostamento. Negli anni si è creato un reale melange di persone di provenienze e lingue diverse che certo noi, qui in Italia, non abbiamo. E questo è stato il frutto di una precisa politica di integrazione, perseguita dal governo federale nei decenni passati.

Boko Haram, che significa “l’educazione occidentale è proibita”, con i suoi attacchi vuole distruggere tutto questo, e vuole destabilizzare una potenza economica che è in ascesa nonostante enormi difficoltà. Come è stato detto, la setta terrorista islamista Boko Haram nel contesto socio-religioso nigeriano non riflette la vera natura delle relazioni tra le fedi cristiana e musulmana (3). Promuove invece una versione dell’Islam che rende proibito per i musulmani prendere parte a attività sociali o politiche associabili con la società occidentale: ad esempio votare alle elezioni, indossare t-shirts o pantaloni, ricevere un’educazione laica (4).
Da tempo le persone cristiane che vivono in alcune zone del Nord, per lo più originarie del Sud, hanno paura degli attacchi - solo in questi primi mesi dell’anno sono state uccise più 1.500 persone - e sono costrette a tornare a vivere nei posti abitati dai loro genitori. I cristiani si ri-insediano dunque al Sud, i musulmani restano al Nord. La divisione diviene netta, come era una volta. Diversi miei amici nigeriani, come altre centinaia di migliaia di persone, sono molto tristi, spaesati: si sono dovuti spostare per paura, la loro identità è cambiata, non sono felici. In Nigeria è in atto un vero e proprio spaesamento, da alcuni anni, da quando sono iniziati questi attacchi terroristici.
Il rapimento delle circa 300 (trecento!) ragazze si può capire meglio se lo si considera questo contesto di spaesamento. Non sono le prime: sono infatti state rapite migliaia di ragazze negli ultimi anni in Nigeria, a piccoli gruppi. Le trecento ragazze rapite ora vivevano sicuramente nella paura, temendo i terroristi. Sapendo di non poter contare sulla protezione dei militari, della polizia. Le ragazze cristiane e musulmane prelevate con l’inganno da uomini vestiti da militari sono le ragazze delle famiglie più in vista della società. Sono il bene più prezioso per queste famiglie. Il loro rapimento è una sfida aperta, è un richiamo all’odio e al conflitto. Le ragazze sono state rapite perché sono il simbolo della nuova Nigeria, quella che vuole emergere, che ha la coscienza della propria forza e delle proprie capacità. Sono giovani che stavano per prendere un ambito diploma, il WAEC, West Africa Examination Commission, che consente di avviare studi e carriere prestigiose, anche all’estero. Il messaggio è che, invece, queste ragazze - se vogliono vivere - devono tornare sotto il dominio maschile, devono essere sottomesse ai desideri e alla legge di altri, e a ottusi dettami religiosi. L’ultimo video che è stato diffuso ci dice che queste ragazze devono legittimare – anche con il loro credo estorto - l’esistenza di un potere assoluto, l’esistenza di un potere che si esercita sulle donne, come su tutto.
La cosa che più mi ha colpita, dopo il rapimento delle ragazze, è – a parte la ferocia inaudita del fatto - il modo in cui ne ho letto sulla stampa italiana. Nel quotidiano che ho letto quel giorno la notizia era riportata in un piccolo insulso trafiletto in una pagina centrale: rapite trecento ragazze nel Nord della Nigeria. Come se fosse una cosa quasi comune, quasi come se potesse capitare, a volte; come se a volte succedessero, sì, queste cose. Eppure abbiamo ancora viva la memoria storica di un fatto che si è svolto migliaia di anni fa, il ratto delle sabine. Un fatto divenuto mitico, che a confronto con l'attuale, era anche meno eclatante. Perché dunque, ora, questa noncuranza? Sono così lontane da noi le ragazze nigeriane? Sono così diverse da noi?

Mi sembra ci siano diversi possibili piani di lettura. Da una parte c’è l’orribile realtà del rapimento delle giovani donne, strumenti usati come arma di combattimento da Boko Haram, una tecnica precisa per fomentare l’odio, per creare un nemico, colpendolo direttamente al cuore. A rincarare, è arrivata la minaccia, da parte dei terroristi, di vendere le ragazze sul fiorente mercato di donne nigeriane, minaccia annunciata dal loro leader in un video distribuito il 5 maggio. Manca ancora la parola stupro, forse, ma va da sé che lo stupro accompagna il rapimento.
Dall’altra parte c’è la mancata reazione del governo federale, che nulla ha fatto – incredibilmente – per fermare il rapimento: immaginate quanto facile possa essere, logisticamente, arrivare a individuare una colonna che porta come prigioniere centinaia di persone, immaginate quanti sono stati i testimoni di questa fuga.
Infine, abbiamo la mancata reazione dei media. Il rapimento risale al 14 aprile, ma solo negli ultimi giorni, dopo le sollecitazioni esterne della stampa estera e delle campagne sui social network, è data la dovuta attenzione ai fatti. E qui mi riferisco in particolare all’Italia. Perché dunque, come dicevo, questa noncuranza per le ragazze nigeriane?
Personalmente, conoscendo bene il fenomeno della tratta (5) , mi sono immediatamente immaginata che queste ragazze rapite in Nigeria, come quelle che le hanno precedute, avrebbero potuto esser vendute. Ed è molto probabile che questo sia avvenuto. Le più belle, quasi sicuramente, hanno fatto una brutta fine, perché una ragazza attraente assicura rendite molto alte a chi la sa sfruttare. Di recente ho letto un articolo agghiacciante, criticato per la sua brutalità (6), in cui si racconta come ai confini della Nigeria, in luoghi nascosti, siano stati ormai organizzati veri e propri campi in cui sono addestrate violentemente le ragazze che debbono poi fare le prostitute in Europa, o in altri paesi africani. Alcune di loro sono, si, le ragazze che lavorano qui, sulla nostre strade, quelle ragazze così simpatiche e spesso irruente che molti di noi conoscono da vicino. Ne hanno passate tante. Si sa che le nigeriane sono le donne più sfruttate, come prostitute, in questa parte di mondo – compresa tra Africa occidentale e Europa mediterranea del Sud. Quelle che sono pagate meno di tutte, e quelle che hanno a volte storie indicibili. Sono queste le nigeriane che qui conosciamo meglio.  Le reti organizzate per il loro sfruttamento arrivano ormai fino in Norvegia. E’ un traffico che da più di venti anni è continuamente alimentato con giovani donne che di solito non hanno altre opportunità. Voglio concludere ricordando Nike Favour Adekunle (7), una bella e solare ventenne nigeriana che era stata costretta a prostituirsi ed è stata ritrovata carbonizzata nelle campagne di Misilmeri nel dicembre del 2011. È stata seppellita solo nel marzo scorso. Per più di due anni, il corpo di Favour era stato lasciato in una cella frigorifera della medicina legale del Policlinico a Palermo. Nessuno ne aveva reclamato il cadavere. Alla fine l'amministrazione di Misilmeri e il coordinamento antitratta si sono presi la cura di seppellirla. Che tristezza infinita. Dieci cento, trecento campagne perché le ragazze rapite a Chibok siano presto liberate e perché abbiano le opportunità di avere carriere importanti, in Nigeria e in altri paesi, e dare il loro fondamentale contributo per cambiare le cose.