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Il governo propone 2 miliardi da destinare alla cura all'infanzia per la ripresa. Ma le simulazioni sui costi mostrano che non sarebbero sufficienti. Per progettare investimenti sostenibili serve la competenza delle esperte

Nidi, servono esperte
per fare di conto

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Foto: Unsplash/ Sincerely Media

Ci risiamo. Dobbiamo ancora una volta alzare la voce, ripetere proclami e moltiplicare le iniziative per ottenere che donne con le dovute competenze presidino l’architettura del gigantesco piano di investimenti da presentare al fondo per la ripresa dell’Unione Europea (NGEU). E, ancora una volta lo facciamo per arginare il rischio che tale piano sia retoricamente dalla parte delle donne, ma sostanzialmente da tutt’altra parte.

Che questo rischio sia concreto, lo suggerisce il caso degli asili nido, nonostante l’obiettivo di ampliare i servizi all’infanzia sia ‘la’ credenziale che il governo sta esibendo per accreditare il proprio impegno nei confronti delle donne in sede di futura allocazione dei fondi europei.      

In un recente intervento al parlamento ripreso in una intervista al quotidiano La Repubblica, il Presidente del Consiglio Conte ha risposto con due esempi alla domanda di quali progetti di investimento fossero concretamente in via di elaborazione. Gli esempi offerti sono digitalizzazione e asili nido. A proposito di asili il presidente ha precisato che si trattava di garantire servizi a 750 mila bimbi sotto i tre anni a fronte di un investimento complessivo di 2 miliardi. Dichiarazioni peraltro coerenti con la bozza più recente del Piano nazionale per la ripresa e la resilienza (Pnrr) nella quale si propone di destinare 4,2 miliardi al capitolo ‘parità di genere’: la cifra include, infatti, l’ampliamento dei servizi all’infanzia, ma accanto ad altre ‘politiche sociali a supporto delle donne lavoratrici’. 

Il problema è cosa si possa fare con 2 miliardi, premesso che, per regolamento del recovery fund, vanno destinati a investimenti una tantum. Se traduciamo i ‘servizi’ annunciati da Conte con ‘costruzione di nuovi posti nido’, dobbiamo fare i conti con i costi effettivi di costruzione. Stime accreditate da fonti autorevoli[1] parlano di un costo medio pari a 16-17mila euro per ogni nuovo posto nido pubblico ‘attrezzato’ di tutto ciò che serve per renderlo operativo. Rimangono ovviamente esclusi da questa cifra i costi di gestione – quelli amministrativi, gli stipendi delle maestre e dei maestri e altro ancora. A 16-17 mila euro per posto nido costruito, 2 miliardi possono finanziare tra 117 e 125 mila nuovi posti, molto meno di quanti ne occorrono per ‘servire’ i 750 mila bimbi evocati dal presidente Conte. I posti nido  pubblici e privati – esistenti ammontavano infatti a 355.000 nel 2017-18 secondo un recentissimo rapporto Istat. Per dirlo altrimenti, 2 miliardi dovrebbero finanziare la costruzione di circa 395 mila nuovi posti per poter servire 750 mila bambini. 

La discrasia della cifra che si ottiene con la stima di 16-17 mila euro per posto nido e quella necessaria per garantire la costruzione di asili che ospitino 750 mila bimbi è notevole. Non è impossibile trovare una spiegazione, ma quelle a cui riusciamo a pensare non dissipano preoccupazioni e perplessità. Una prima spiegazione è che il governo stia pensando di ampliare gli asili nido esistenti invece di crearne di nuovi. Ciò contrasterebbe, però, con l’obiettivo di riequilibrare l’offerta soprattutto a vantaggio delle regioni meridionali, dove la dotazione di asili è molto più scarsa. Una seconda spiegazione è che si faccia affidamento su un co-finanziamento da parte di strutture private; in questo caso, però, l’ammontare del co-finanziamento rischierebbe di essere troppo importante. Una terza spiegazione è che non si stia pensando ad asili nido, bensì a ‘servizi’ meno costosi: d’accordo, ma quali?

Mettiamo da parte per un attimo questi dubbi e, con eroico ottimismo, supponiamo che i 2 miliardi annunciati siano effettivamente destinati alla spesa una tantum per la costruzione di nuovi asili. Se a regime, la copertura prevista dovesse includere tutti i 750 mila bimbi evocati da Conte, le spese annuali di gestione a costruzione ultimata sarebbero considerevoli a meno di non contenere i tempi di apertura o declassare la qualità educativa offerta dal nido. Nella recente simulazione pubblicata su inGenere abbiamo calcolato costi di gestione pari a circa 3 miliardi l’anno per garantire il tempo pieno e gli attuali standard educativi dei nidi pubblici a 530 mila bambini sotto i tre anni, molto meno dei 750 mila indicati dal presidente. L’ordine di grandezza delle spese di gestione è tale che il novello stanziamento a favore dei comuni previsto dalla legge di bilancio attualmente in discussione non può risolvere il problema: i nuovi fondi raggiungerebbero, infatti, i 300 milioni di euro l’anno, a regime, a partire dal 2025.   

Rinunciare alla qualità educativa della cura all’infanzia o difettare su flessibilità e lunghezza dell’orario per contenere i costi di gestione rischia di vanificare lo sforzo e produrre posti nido vacanti. Ricordiamo un dato che abbiamo spesso richiamato su inGenere e che basta, da solo, a rendere conto di come la flessibilità offerta dai nonni faccia concorrenza agli asili nido. Secondo l’ispettorato del Lavoro che monitora per legge le dimissioni dal lavoro dei genitori nei primi tre anni di vita, la motivazione più frequente alla richiesta di dimissione (casi convalidati) è l’assenza di ‘parenti di supporto’ (il 27%) mentre le rette troppo alte sono addotte dal 7% e il non accoglimento all’asilo dal 2%.

Investire in nidi è cosa buona e giusta, purché dietro questo vessillo ci sia una progettazione competente e non velleitaria. A questo servono, tra l’altro, conoscenze e competenze che non è difficile reperire, specialmente fra le esperte.

Note

[1] Il focus dell’ufficio di valutazione del Senato del luglio 2018 riporta un costo una tantum di 16 mila euro (tabella 3).  Poiché un’analoga stima era stata riportata nel 2012, nella nostra simulazione sui costi e ricavi di un investimento  abbiamo aggiornando la stima a 17 mila euro per tener conto dell’inflazione.

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