La tempestività rappresenta un tassello fondamentale nella prevenzione dei femminicidi. Tra i metodi utilizzati da centri antiviolenza e servizi territoriali per valutare i rischi della violenza c'è il metodo SARA, vediamo come funziona

Alle donne non si crede mai. Nella maggior parte dei casi, l’uomo violento appare affabile, integrato, una persona “tranquilla”, chi può credere che all’interno della sua famiglia possa agire violenze tanto acute? E, nel caso la cosa sia indubitabile, di certo saranno stati i comportamenti della sua compagna a rendere inevitabile il ricorso alla violenza.
I reati di maltrattamento in famiglia sono complessi, avvengono nella sfera delle relazioni affettive e spesso sono caratterizzati da un’iniziale mancanza di disponibilità della donna di procedere contro il partner o l’ex partner, per una serie di dinamiche proprie del ciclo della violenza, come la dispercezione del sé che deriva dai maltrattamenti. Nelle aule dei tribunali, dove mi sono ritrovata a testimoniare in favore delle donne, inizialmente mi stupiva l’atteggiamento di molte, che non erano animate da sentimenti di rancore nei confronti del loro carnefice, ma dal desiderio di ricostruirsi un’esistenza libera.
Un anello primario, in ottica preventiva, nella gestione dei casi di femminicidio risiede nella tempestività della valutazione del rischio di recidiva e reiterazione della violenza a danno della donna, al fine di scongiurare epiloghi tragici. Il principio cardine su cui si basa la valutazione del rischio è che la violenza è una scelta, influenzata da una serie di fattori sociali, biologici, neurologici, individuali di colui che maltratta. Nonostante i corposi istituti giuridici preposti al contrasto della violenza domestica, troppe volte nei casi di cronaca si legge di donne che avevano già presentato denunce per maltrattamenti o segnalato violenze reiterate, a cui non hanno fatto seguito interventi efficaci.
È accertato come il momento della denuncia o la volontà palesata di interrompere la relazione costituiscano il momento di pericolosità maggiore per la vita della donna, con rischi che vanno dall’escalation della violenza al femminicidio. La denuncia in sé si rivela insufficiente, se non opportunamente supportata da una puntuale valutazione del rischio e dalla messa a punto di un piano di sicurezza “ad hoc” che assicuri la salvaguardia in toto della vittima di violenza. Si dovranno porre a sistema tutti gli attori della rete antiviolenza, ricordando che ogni storia di violenza ha caratteristiche variabili, quali il grado di consapevolezza della violenza subita, il livello di resilienza, la fase del ciclo della violenza, le strategie di coping attuate dalla donna (l'insieme di reazioni a situazioni percepite come stressanti, ndr), gli aiuti esterni che può aver richiesto.
Il Piano Strategico Nazionale Contro la Violenza Maschile sulle Donne 2017–2020, all’asse 4.3 “Perseguire e punire”, recependo il contenuto dell’art.51 della Convenzione di Istanbul, recita chiaramente che “le donne che subiscono violenza hanno diritto a sentirsi tutelate e a ottenere giustizia dai tribunali il prima possibile attraverso un’efficace e rapida valutazione e gestione del rischio di letalità, gravità, reiterazione e recidiva del reato”.
La reiterazione, la frequenza e l’escalation della violenza che connotano tale tipologia di reato hanno aperto la strada alla riflessione sui “fattori di rischio” e di “vulnerabilità” presenti all’interno delle relazioni violente.
Un fattore di rischio è una caratteristica del maltrattante, una circostanza della relazione la cui presenza aumenta la probabilità che si verifichi quel determinato comportamento. Individuare i fattori di rischio aiuta a leggere i “campanelli d’allarme” e a far sì che le donne – che forse non li hanno saputi riconoscere perché “normalizzati” – possano rileggerli nella narrazione del loro vissuto e della loro storia.
I fattori di vulnerabilità sono caratteristiche delle vittime la cui presenza aumenta la difficoltà di sottrarsi alla violenza e al rischio di recidiva. Tra i metodi più conosciuti e maggiormente usati negli Stati Uniti e in Europa vi è il metodo SARA (Spousal Assault Risk Assessment, Valutazione del rischio di recidiva nei casi di violenza e nelle relazioni intime).[1]
Per valutazione del rischio si intende “quel complesso di azioni che tendono a fornire un quadro prognostico – di previsione – circa la probabilità (rischio) del verificarsi di eventi, in base a parametri che sono noti, che possono mettere a repentaglio l’incolumità o la sicurezza di una persona”.
Lo scopo della valutazione del rischio di recidiva è quello di poter prevenire tale recidiva e l’escalation della violenza nelle relazioni intime, attraverso l’attuazione di strategie di intervento efficaci a tutela della vittima e strategie nei confronti del reo per scongiurare tale rischio, limitandone la libertà con misure cautelari, precautelari o di prevenzione adeguate, e/o attraverso risposte di trattamento opportune.
Affrontare i casi di maltrattamento in famiglia e all’interno della coppia utilizzando tale metodologia rappresenta un’occasione importante per evidenziare quei fattori la cui presenza aumenta la probabilità che la violenza si reiteri nel tempo, pianificando con la donna un percorso di messa in sicurezza se il rischio risulterà molto elevato. Ciò non toglie che, l’assenza di fattori di rischio non esclude la possibilità di presentarsi della condotta violenta essendo il comportamento umano imprevedibile. Il metodo SARA, nella versione originaria costituito da 20 passaggi, poi snellito nella versione screening SARA-S, è stato costruito sulla base di dieci fattori di rischio che riflettono vari aspetti relativi alla storia di violenza, ai procedimenti penali, al funzionamento e adattamento sociale e alla salute mentale dell’autore della violenza, ed è utile per avere un quadro esaustivo della sua pericolosità.
L’operatrice o l’operatore che effettua la valutazione del rischio con la donna procede nello stabilire il livello di presenza o meno di ognuno dei dieci fattori identificando se la presenza del rischio sia bassa, media o elevata, e se sia riferibile come lasso di tempo nell’immediato (entro due mesi), o più a lungo termine (dopo i due mesi) anche in merito a escalation e gravità. Un punto di forza dello strumento risiede nell’integrare la valutazione dell’operatrice con quella della donna, che fornirà la propria percezione rispetto alla violenza subìta e i rischi a essa connessi: così facendo avrà l’opportunità di essere al centro del percorso da intraprendere.
Essendo la valutazione del rischio un processo dinamico, si parla di Active Risk Assessment (ARA). Questa procedura dovrà essere eseguita più volte nel corso del tempo senza tralasciare la condivisione con le figure professionali (centri antiviolenza, servizi territoriali, forze dell’ordine, tribunali, Presidi Ospedalieri, ecc.), che entreranno in contatto con la donna in momenti diversi della sua storia. Il livello del rischio può fluttuare nel tempo, ed è opportuno seguirne l'evoluzione a intervalli di almeno 2-3 mesi. Vi sono alcune circostanze critiche che esigono la necessità di un’immediata ripetizione della procedura, tra queste: la donna ha riferito la sua intenzione di interrompere la relazione o di separarsi; la nascita per lei di una nuova relazione; dispute relative all’affidamento dei figli e al regime di visita; se il maltrattante viene scarcerato dopo un periodo di custodia cautelare o dopo la condanna per reato di maltrattamenti o per altri reati più gravi.
Questa metodologia si rivela infine funzionale per attivare un virtuoso feedback bidirezionale tra la donna e l’operatrice al fine di monitorare in un lasso di tempo più circoscritto l’evolversi della violenza, rimandare il rischio emerso attraverso un’adeguata restituzione, rileggere in ottica di genere gli stereotipi culturali presenti, offrire in sede di testimonianza processuale una chiave di lettura più nitida sul funzionamento delle dinamiche della violenza, creare una robusta rete supportiva e un intervento multidisciplinare che trasmetta alla donna il messaggio di non essere sola nel vissuto violento.
Note
[1] Il metodo è stato messo a punto in Canada nel 1996, a opera di P. Randall Kropp e Stephen D. Hart, e poi ampliamente sviluppato in Italia a partire dal 2006, con specifici protocolli con le Forze dell’Ordine da A.C. Baldry, e diffuso in centri antiviolenza e servizi territoriali attraverso specifica formazione. Per un approfondimento: A.C. Baldry, Dai maltrattamenti all’omicidio. La valutazione del rischio di recidiva e dell’uxoricidio, Franco Angeli, Milano, 2016