La Commissione propone una direttiva per portare a un minimo del 40% le donne nei board, entro il 2020. Viviane Reding vince la sua battaglia, dopo una spaccatura in Commissione. I nodi del dibattito, nell'intervento di una delle promotrici della legge italiana. Che dice: i numeri ci stanno dando ragione
Garantire un’equa rappresentanza di entrambi i generi, destinando a quello meno rappresentato il 40 per cento dei posti all’interno dei consigli di amministrazione delle società quotate di tutta l’Unione europea. Questo, in estrema sintesi, il contenuto della proposta di direttiva adottata ieri dalla Commissione europea. La vice presidente della Commissione europea e Commissario europeo per la giustizia, i diritti fondamentali e la cittadinanza Viviane Reding ha riportato una grande vittoria, dopo il rinvio del voto a cui si era stati costretti il 24 ottobre scorso, per la mancanza di unanimità in seno al collegio.
Il testo approvato è stato leggermente modificato rispetto all’originale. Una delle modifiche più rilevanti riguarda il potere di sanzione in caso di mancato rispetto delle norme, che viene lasciato in capo ai singoli Stati. La direttiva prevede, dunque:
- la determinazione di un obiettivo minimo del 40% entro il 2020 riservato al genere meno rappresentato per le cariche di membri non esecutivi dei consigli di amministrazione delle società europee quotate in borsa, termine anticipato al 2018 nel caso delle società pubbliche.
- una misura complementare, chiamata “flexi-quota”: un obbligo per le società quotate di porsi obiettivi individuali di autodisciplina in materia di rappresentazione di entrambi i generi nel collegio di amministratori esecutivi, che dovranno essere raggiunti entro il 2020 (o 2018, anche in questo caso, per le società pubbliche). Le imprese dovranno riferire annualmente sui progressi compiuti.
- l’accento sul merito. In una nota ufficiale della Commissione, infatti, si legge che “qualificazione e merito rimarranno i criteri chiave per un posto in un board. La direttiva stabilisce un livello minimo di armonizzazione dei requisiti di corporate governance perché la decisione di nomina dovrà essere basata su criteri oggettivi. Le garanzie presenti nel testo faranno in modo che non ci sia un’automatica e incondizionata promozione del genere sottorappresentato. In linea con la giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea in materia di azioni positive, a parità di qualifiche la preferenza è data al candidato appartenente al genere meno rappresentato, a meno che una valutazione obiettiva che tenga conto di tutti i criteri specifici dei singoli candidati sposti la bilancia a favore del candidato dell’altro sesso”.
- l’esclusione dall’applicazione obbligatoria di queste norme per le piccole e medie imprese.
- la propria “data di scadenza”: esattamente come previsto nella legge italiana, la direttiva è una misura temporanea e terminerà la propria vigenza nel 2028.
Il dibattito in Commissione
Nei lavori preparatori, ha sorpreso i più che a opporsi siano state più che altro le donne: Neelie Kroes (Agenda Digitale), Cecilia Malmström (Immigrazione), Catherine Ashton (Alto Rappresentante per la Politica Estera), Connie Hedegaard (Ambiente) and Máire Geoghegan-Quinn (Ricerca). A sostenere la vice presidente Reding, invece, diversi uomini, tra cui Antonio Tajani e il presidente Barroso. Sorprende molti ma non me, che insieme a Lella Golfo ho portato avanti la stessa battaglia nel parlamento italiano, trovando molti oppositori e detrattori, spesso tra le donne stesse.
Il confronto tra le due argomentazioni è probabilmente noto ed è quello avvenuto anche nel caso della proposta di Reding: chi si oppone contesta il trattamento da “riserva indiana” e interpreta le leggi che impongono una presenza femminile ai vertici delle società come un “contentino” concesso da un sistema di potere maschilista, che rimane all’interno di un impianto di regole deciso, condiviso e attuato dagli uomini. Una delle conseguenze di questo ragionamento è che l’aumento della presenza femminile possa non combaciare con un aumento di meritocrazia, che le donne che accedono ai consigli di amministrazione, cioè, vi arrivino non perché le più competenti e preparate ma perché “nominate” secondo logiche di convenienza anche qui tutte maschili. Abbiamo risposto molte volte a questo tipo di obiezioni, spesso evidenziando semplicemente l’attuale stato di fatto: nel 2010 le donne nei board di società quotate italiane erano il 6,7 per cento del totale dei componenti, percentuale che fino all’anno scorso aumentava a un tasso dello 0,5 per cento annuo. Con questo ritmo di crescita sarebbero stati necessari circa 50 anni per raggiungere la parità di genere, senza considerare nel calcolo eventuali “ostacoli” che è probabile sarebbero sorti in questo (pur lentissimo) cammino. Del resto, più del 60 per cento dei laureati italiani sono donne: è davvero difficile pensare che nonostante i risultati brillanti all’università, solo una percentuale così scarsa maturi le competenze e le capacità necessarie per accedere a vertici decisionali. Il problema, insomma, sono le regole del gioco, ideate in maniera tale da escludere le donne dal mondo professionale (soprattutto dai suoi livelli più elevati) per perpetuare un modello di società in cui la figura femminile è relegata nei soli ruoli di madre e moglie mentre l’uomo lavora, persegue le proprie ambizioni professionali e sostiene la famiglia dal punto di vista economico.
I risultati italiani
Tutti pensiamo che le donne dovrebbero dimostrare da sole il proprio valore e che non dovrebbero avere bisogno di strumenti legislativi per far sì che questo accada, però la situazione in cui viviamo è molto diversa dall’ideale ed è da questa situazione, con tutte le sue distorsioni e i suoi malfunzionamenti, che dobbiamo necessariamente partire se vogliamo davvero cambiare le cose e creare un reale, trasparente, sistema di uguaglianza di opportunità, fondato esclusivamente sul merito. La miglior risposta che posso fornire alle obiezioni e alle perplessità sono i dati relativi agli ultimi due anni. Nonostante la legge 120 del 2011 sia entrata in vigore il 12 agosto dell'anno scorso e i termini della sua applicabilità abbiano cominciato a decorrere esattamente da un anno dopo tale data, infatti, abbiamo rilevato una tendenza, da parte delle società quotate, ad adeguarsi alle sue disposizioni ancora prima che queste ultime diventassero obbligatorie. A maggio 2012 le donne erano il 9,28 per cento dei componenti dei board delle società quotate italiane, registrando un aumento di oltre il 2 per cento rispetto a giugno 2011 (a fronte dell’aumento annuo dello 0,5 per cento già citato in precedenza) mentre adesso dovrebbe essere stata superata la soglia del 10 per cento. Numeri destinati ad aumentare, dato che oramai non si tratta più di una decisione volontaria e che tutti i rinnovi successivi al 12 agosto 2012 saranno soggetti all’obbligo di destinare il 20 per cento dei posti in cda al genere meno rappresentato. E’ difficile, infatti, che le società quotate ricorrano a espedienti per non aprire le porte dei propri vertici alle donne, dato che lo stesso mercato internazionale sembra orientarsi verso una penalizzazione del mancato rispetto della gender equality (criterio sempre più spesso presente tra i requisiti necessari per accedere a diversi tipi di finanziamento).
Più critico è, forse, il caso delle società a controllo pubblico, le quali solo di recente sono state effettivamente soggette alla norma, con l’approvazione in via definitiva del regolamento attuativo lo scorso 26 ottobre. Esistono rischi di tentativi, infatti, di aggirare la norma diminuendo il numero dei componenti per limitare il numero delle donne. Si tratta, tuttavia, di un “escamotage” che produce come conseguenza – probabilmente inintenzionale – una maggiore efficienza della pubblica amministrazione e che, dunque, non nuoce alle donne ma giova alla società intera. Uno dei possibili vulnus relativamente al rispetto della legge in seno alle società pubbliche è l’attuale mancanza di un’accurata “mappatura” delle società esistenti che arrivi fino alle più piccole e meno note. Si tratta di un’azione prevista nel decreto attuativo, di cui sarà responsabile il dipartimento per le pari opportunità (è un’ipotesi realistica immaginare la creazione di un organismo ad hoc all’interno del dipartimento, data la mole di lavoro prevista). Quest’ultimo dovrà anche esaminare le denunce che potranno essere presentate, secondo il testo, da “chiunque vi abbia interesse”, configurando così un importantissimo strumento denominato “controllo diffuso” che dovrebbe aiutare a vigilare sull’effettivo rispetto della legge.
* versione aggiornata del precedente articolo, pubblicato il 13 novembre 2012