Il più grande problema dell’Europa non è economico o sanitario, ma culturale. L’Europa avrà un futuro se ciascuna delle 446 milioni di persone che la abita potrà sentire di far parte di una storia comune

Per molte persone l’Unione Europea è un organismo burocratico freddo e distante, che interferisce nelle azioni dei singoli paesi sottraendo loro sovranità monetaria. Un organismo che offre aiuti con il contagocce e prende più di ciò che chiede.
Sarebbe possibile, dati alla mano, dimostrare che non funziona esattamente così e che qualunque cittadina o cittadino d’Europa beneficia ogni giorno di strutture e iniziative finanziate con fondi europei, ma più che rispondere a questa percezione con i dati bisogna domandarsi il perché di questa percezione.
Il senso di delusione e fastidio nei confronti dell’Unione non deriva dalla mancanza di fondi, ma dalla mancanza di emozione, di potere attrattivo, dalla sensazione che il resto d’Europa non provi empatia per noi, dalla sensazione di essere distanti dal luogo in cui vengono prese delle decisioni che avranno un impatto sulle nostre vite. Questo accade perché mancano un sentimento europeo, un immaginario europeo, un dibattito pubblico europeo. Mancano, in poche parole, tutti gli elementi da cui l’idea stessa di Unione europea è nata, ma che adesso, paradossalmente, sono passati in secondo piano.
Il più grande problema dell’Europa non è dunque economico o sanitario, ma culturale. Finché non ci sarà un vero spazio politico europeo, finché le grandi domande di questo tempo complesso non verranno poste sullo stesso terreno, creando un dialogo che vada oltre i confini nazionali, qualunque decisione economica e sanitaria verrà sempre percepita come frutto di un calcolo costi-benefici e di un compromesso tra interesse nazionale e interesse europeo.
In queste settimane abbiamo assistito, del resto, a dichiarazioni da parte di governatori nazionali – Angela Merkel e Emmanuel Macron – e addirittura da parte di figure europee di spicco – Ursula Von der Leyen, presidente della Commissione Europea – che ci hanno fatto percepire questa mancanza di empatia per la condizione italiana, oltre che di lungimiranza.
L’assunto di base era, in effetti, che l’emergenza sanitaria riguardasse solo noi, ma come i fatti hanno dimostrato nel corso di pochi giorni, in un mondo interconnesso come quello in cui viviamo ciò che accade in un paese interesserà nel giro di poco tempo anche tutti gli altri, dunque pensare secondo la vecchia idea di interesse nazionale significa non riuscire a vedere al di là del proprio naso. Agire isolando gli altri paesi e rinchiudendo i problemi nei confini nazionali significa, in altre parole, andare contro il proprio stesso interesse.
Allo stato attuale, però, le istituzioni europee sono bloccate perché non possono intervenire in certi settori, e di conseguenza sembra difficile creare una strategia di mutuo aiuto e potenziamento. Questo accade perché l’Unione europea agisce in base al principio di sussidiarietà, secondo cui l’Unione interviene solo in campi definiti e cerca di non inferire con le azioni dei singoli stati. Può però intervenire in altri settori quando l’azione degli stati membri da sola non è sufficiente e un lavoro comune può potenziare gli effetti e i benefici. Non si tratta quindi di un principio statico, ma di un principio dinamico dello stato di diritto, che non impedisce di ampliare le competenze dell’Ue o di restringerle, laddove necessario.
Il punto è che questa emergenza sanitaria non rappresenta solo un momento difficile arrivato d’improvviso ma destinato a sparire nel giro di qualche mese: questa crisi potrebbe essere l’inizio di nuovi problemi globali da risolvere, legati al cambiamento climatico e al nostro impatto sul pianeta, e il coronavirus potrebbe ragionevolmente essere il primo di una serie di nuovi virus che si diffonderanno in futuro. Del resto, l’Europa ha già mostrato grande difficoltà nel creare una strategia comune su altri temi caldi, per esempio migrazioni e diritti sociali, civili e politici.
È quindi il momento per domandarsi quali siano le competenze che l’Unione dovrebbe avere e quali sfide andrebbero affrontate insieme, perché se affrontate a livello nazionale porterebbero a un sicuro fallimento. In un momento come questo essere isolati significa essere deboli, perché lo sconvolgimento che stiamo vivendo - il primo di nuovi sconvolgimenti che verranno, come la scienza ci dice da anni – non si può affrontare da soli.
Nessuno stato nazionale ha il potere di uscire da solo da una crisi globale. Si tratta quindi di fare una scelta: tra la collaborazione e l’isolamento, tra una società aperta e una chiusa. Quello che stiamo sperimentando con le nostre vite, chiusi nelle nostre case, va proiettato in un orizzonte più ampio. Si potrebbe essere tentati di chiudere tutto e isolarsi, e invece è proprio in questo momento che bisogna davvero ragionare in modo nuovo, domandarsi quali azioni hanno bisogno di una strategia comune, di un dibattito comune, senza smettere mai di alimentare il sentimento europeo, il senso di cittadinanza europea.
Riflettere su questo sentimento, dunque sul sistema di valori e principi democratici alla base dell’Unione, significa inevitabilmente rivoluzionare il modo in cui vengono gestite le economie, la sanità, l’educazione.
A oggi solo il 3% della popolazione europea ha le risorse e la possibilità di essere esposta a più paesi nel corso dell’anno, e dunque è chiaro che il 97% percepisca l’Unione come qualcosa di distante, assente, elitario. Eppure siamo interdipendenti, e prima che un organismo di revisione dei conti e tutela della stabilità economica l’Unione è un organismo di dialogo, fatto da sempre di identità e differenze, molteplicità e unità. Una relazione tra 446 milioni di abitanti che hanno desideri, talenti, progetti diversi, che hanno caratteristiche diverse per religione, ceto, orientamento sessuale, identità di genere, abilità.
Come in ogni relazione devono esserci autenticità, premesse condivise, consapevolezza della diversità, ed è la cultura che deve compiere quest’opera. Chi si occupa di economia, mobilità, sanità deve comprendere la primaria importanza di un dibattito pubblico, di un collante culturale, di un immaginario sociale europeo.
L’Europa avrà un futuro se ciascuna delle 446 milioni di persone che la abita sentirà di far parte di una storia comune, sentirà che il proprio processo di fioritura personale si iscrive in un contesto più ampio di fioritura collettiva. Non bastano i fondi, i soldi, gli aiuti concreti finché non ci sentiremo parte di una stessa storia, finché non inizieremo in prima persona a percepire le altre nazioni europee come parte di noi, da aiutare quando hanno bisogno e da cui farsi aiutare quando ce ne è bisogno, in modo da crescere come organismo unico. Ciascuno di noi può farlo in prima persona, ma è essenziale che lo facciano le istituzioni europee e quelle nazionali, è essenziale che i tavoli tra i paesi non abbiano come scopo la difesa dei propri interessi nazionali, ma l’aiuto alle nazioni più fragili. Questo significherebbe davvero procedere insieme.
Essere coesi e solidali è una possibilità concreta, non un’illusione. Si tratta di progredire con realismo, di fiorire con attenzione costante e quotidiana a ciò che succede nell’Unione. È proprio per essere realisti che dobbiamo ammettere che manca ancora il senso di cittadinanza europea, che manca un terreno condiviso, e che è proprio questo a dare spazio alle derive populiste. In quanto esseri umani abbiamo bisogno di storie che ci parlino di valori e di un senso di appartenenza riconoscibile, e le storie più attraenti al momento sono quelle che confondono sovranità con sovranismo, nazione con nazionalismo, identità con xenofobia.
Il 31 gennaio di quest’anno la bandiera britannica è stata rimossa dai palazzi dell’Unione europea, un’azione che ha avuto una portata simbolica potentissima e che ci ha fatto percepire la fragilità dell’Ue. Per fare in modo che nei prossimi anni l’Unione europea non collassi su se stessa dobbiamo mettere in primo piano la cultura, che è da sempre veicolo di emozione e riconoscimento.