Le donne sono ancora troppo poche nel coordinamento e nei programmi dei festival, nella direzione delle orchestre e nel settore discografico. Ora un progetto internazionale vuole invertire la rotta
Shesaid.so, riprendiamoci
la musica
Il progetto internazionale "Shesaid.so" nasce nel 2014 da un’idea di Andreea Magdalina, una professionista del mondo della musica elettronica specializzata in marketing, che nei suoi anni di carriera si è ritrovata spesso a essere l’unica donna seduta ai tavoli decisionali del settore. Stanca di questa situazione Magdalina ha fondato il network shesaid.so, per mettere in contatto tra loro donne e "minoranze di genere" che operano nel mondo della musica, al fine di fare rete e scambiarsi competenze e notizie in un ambiente sicuro e inclusivo.
La rete globale conta oltre 13.000 iscritte, 18 chapter locali, ha stabilito centinaia di partnership strategiche con festival, workshop, panel per portare avanti la missione di bilanciare il monopolio decisionale maschile in questo settore.
La divisione italiana di shesaid.so nasce nell’agosto 2018 dall’impegno di Nur Al Habash, critica musicale e ora responsabile dell’ufficio Siae Italia Music Export. Era da tempo che si meditava di inaugurare il chapter italiano di shesaid.so e in un clima favorevole che già si era creato con i movimenti #metoo e #quellavoltache, molte professioniste hanno cominciato a parlare di discriminazioni subite, evidenti o meno, trovando in Shesaid.so Italy un luogo sicuro dove confrontarsi e cercare soluzioni proattive.
A oggi il gruppo italiano conta oltre 1500 iscritte. Una delle prime iniziative come gruppo è stata quella di costruire un database per mappare tutte le professioniste presenti sul territorio e capire in cosa sono specializzate, l'anzianità, la loro provenienza e i loro obiettivi. Il grande punto di forza di aver creato una comunità è il confronto quotidiano su tanti punti di vista che ci rendono collettivamente più consapevoli ed empatiche, anche grazie alla diffusione di un linguaggio più inclusivo.
Una delle prime problematiche sollevate e affrontate all’interno di shesaid.so è il gap tra la presenza di uomini e donne nei programmi dei festival. La scarsa rappresentanza di donne sui palchi significa che sono pochi anche i modelli di riferimento, motivo per il quale il numero di musiciste è sempre stato molto basso.
Le ragazze che decidono, nonostante tutto, di intraprendere questa carriera non solo devono gareggiare tra loro, ma anche con un numero decisamente maggiore di colleghi maschi che saranno scelti da produttori, discografici e manager (molto probabilmente maschi anche loro) alimentando una logica reazionaria, spesso inconsciamente. E così i booking mettono sotto contratto poche donne, ai direttori artistici arrivano poche proposte, e le scelte si riducono. Mettiamoci anche il rischio imprenditoriale e si capisce perché siamo arenati in questa situazione che, naturalmente, si riflette su vendite, streaming e classifiche, come solo pochi giorni fa ci ha raccontato Paolo Madeddu.
Non a caso, un dibattito sempre aperto all’interno del nostro network è quello delle “quote di genere”: in particolare le musiciste ripetono spesso di non voler essere una percentuale in una lista, ma essere convocate per il loro talento. La verità è che le donne devono sempre dimostrare di essere le migliori, le più talentuose, per essere scelte.
Così come sono scarsi gli investimenti discografici sulle artiste o comunque è bassa la loro presenza, l’Osservatorio Nuovo Imaie, disaggregando i dati per paese, genere e fasce d’età, ci dice che in Italia solo il 7,44% di ruoli primari (sui brani registrati presi in esame) è attribuibile a donne, anche se il valore economico generato è più che doppio, pari al 16,78%. Sulla fascia d’età che premia le donne, ovvero 18-34 anni, addirittura si passa al 32,06%. Anche fosse solo da un punto di vista economico, varrebbe la pena invertire la rotta.
A tal proposito, un altro strano squilibrio sta nella percezione dell’età delle artiste ma anche delle professioniste del settore. Superati i 40 anni, inizia spesso una lenta, subdola ma percepibile esclusione. Se si è artista, bisogna innanzitutto dimostrare di essere “ancora” di bell’aspetto (leggi “appetibile”), se invece si ricopre un ruolo in retropalco, è la fine della carriera. È ancora più difficile sfondare il soffitto di cristallo o riuscire a cambiare lavoro. Ironicamente, per gli uomini, quasi sempre si decolla dopo i 40 anni. Naturalmente questo è ancora più accentuato da eventuali maternità, che scatenano un'ennesima discriminazione che sugli uomini non ricade.
Non possiamo negare, inoltre, che il settore musicale è anche un mondo in cui atteggiamenti sessisti, molestie, sia verbali che fisiche, sono ancora all’ordine del giorno. Da un sondaggio interno condotto in collaborazione con InChorus, risulta che le micro aggressioni avvengono perlopiù da parte di uomini che ricoprono livelli dirigenziali verso donne in posizioni professionali più vulnerabili; nel 67% dei casi sono avvenute in presenza di altre persone che non sono intervenute. Questo conferma che tali comportamenti non sono generalmente condannati e anzi appartengono a una cultura machista ritenuta la norma nell’ambiente. Lo abbiamo visto anche durante l’evolversi di questa pandemia, in cui abbiamo raccolto testimonianze di atteggiamenti discriminatori persino all’interno dei comitati attivisti.
Questi bias appartengono a tutto il mondo dell’arte e dell’intrattenimento che non è fatto solo di espressione artistica, ma anche di business, mercato, tecnica, denaro e potere. C’è la parte visibile che è quella dei performer, dei musicisti, dei concerti, dei dischi, delle emozioni. Ma c’è anche una serie di professioni molto meno visibili al pubblico che però sono indispensabili per la realizzazione e veicolazione del prodotto artistico: la musica è un lavoro.
Anche molte delle professioni tecniche sono dominate dalla presenza maschile, è molto raro infatti incontrare una tecnica del suono o delle luci. Alcune specializzazioni che prevedono si faccia vita on the road sono ancora percepite come poco adatte alle donne. I produttori e direttori artistici più famosi sono quasi tutti uomini. Nelle posizioni di potere dell’industria discografica, le donne sono poche, in Italia si contano sulle dita d'una mano.
La nostra mission mira a decostruire gli stereotipi di genere, creare consapevolezza, fornire dei modelli positivi e dare risalto alle donne e alle minoranze di genere che stanno facendo la differenza nell’industria della musica.
Cerchiamo di ottenere risultati con azioni dirette alla community ma anche alle persone e alle aziende esterne, come ad esempio organizzando panel in conference festival musicali, fornendo consulenza per individuare partecipanti che si identificano come donne e avviando un dialogo tematico con tutte le realtà che ci approcciano.
Una delle iniziative più semplici ma di maggior efficacia è stata la pubblicazione sulla pagina Facebook di Shesaid.so Italy di una serie di “buone pratiche” a uso dei giornalisti su alcune frasi e parole che non vorremmo più leggere: espressioni come “band al femminile” (nessuno scriverebbe mai “band al maschile”), i riferimenti all’aspetto fisico, sottolineare continuamente il genere come se fosse una caratteristica precipua del talento, per dirne alcune.
Una parte fondamentale delle attività di shesaid.so sono i progetti interni di mentoring tra professioniste senior e junior. Durante il lockdown è partito il progetto she.grows sponsorizzato da YouTube che coinvolge Italia e Francia, ed è l’unico programma del genere del nostro paese.
Infine, oltre ai meeting generali, mediamente a cadenza mensile, si svolgono incontri e workshop locali di shesaid.so in varie città in tutta Italia (più di recente virtuali, a causa della pandemia). Nel futuro prossimo abbiamo in cantiere collaborazioni con istituti di alta formazione, brand e aziende, con la finalità di promuovere e diffondere sempre maggiore consapevolezza e creare dei percorsi di sensibilizzazione aperti anche per gli esterni (uomini inclusi).
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