Storie

Da una sponda del Mediterraneo all'altra, una donna italiana, Renata Pepicelli, e un uomo tunisino, Mohammed Kerrou, a confronto sullo stesso tema, in due libri. Che provano a scalfire gli stereotipi e il colonialismo culturale, per dotare di complessità ciò che viene liquidato come il simbolo della subordinazione delle islamiche

Lo spazio pubblico
delle donne velate

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Il bel libro di Renata Pepicelli (Il velo nell’Islam. Storia, politica, estetica, Carocci, 2012) risponde ad un bisogno molto attuale: quello di ancorare il discorso pubblico italiano intorno alla “questione del velo” ad una base di conoscenze tale da consentire lo sviluppo di un minimo lessico comune. L’autrice offre questa base rivolgendosi – con rigore e competenza – ad un pubblico non necessariamente di specialisti e lo fa adottando, molto opportunamente, un approccio anzitutto storico. Dopo un capitolo dedicato ai fondamenti coranici del velo – in cui non si manca di ricordare che del Corano esistono molte interpretazioni e che il velo femminile è pratica antichissima comune a tutta l’area mediterranea e mediorientale e a tutte e tre le religioni monoteistiche – il libro dà conto delle tappe storiche che precedono il dibattito odierno. Abbiamo così l’Ottocento quando lo sguardo del colonizzatore europeo incontra il velo tradizionale delle musulmane (e farà di tutto per strapparglielo); la prima metà del Novecento con il processo di modernizzazione simboleggiato dal progressivo “svelamento” delle donne; la seconda metà del Novecento segnata dalla decolonizazione e dal “ritorno del velo”, negli anni Settanta, con l’affermazione dell’islam politico; infine il ventunesimo secolo con la diffusione dell’islam in Europa e quella del velo islamico nello spazio pubblico occidentale.

Il lettore viene così portato a problematizzare molte cose solitamente date per scontate: perché il velo è diventato un problema? e di che tipo di problema si tratta?. Renata Pepicelli non dà una risposta ma presenta interpretazioni diverse dalle quali scaturiscono discorsi di segno opposto, a favore o contro l’uso del velo o, più precisamente, a favore o contro la limitazione (o la proibizione) di tale pratica con strumenti giuridici. E’ questa infatti la forma che il problema ha assunto oggi in Europa, dopo che ne è stata definita la triplice natura di problema di pubblica sicurezza, di difesa della “laicità” (o della stessa democrazia) e infine di parità tra i sessi (che torna sempre utile quando non costa niente, viene voglia di aggiungere acidamente). Una volta che la natura del problema è stata così solidamente definita, faticano ad affermarsi discorsi alternativi, come quelli che all’uso del velo collegano le ragioni della libertà di culto (malgrado autorevoli sentenze del Consiglio di Stato in Francia) o quelli che in materia rivendicano il diritto e la capacità di autodeterminazione delle donne: le innumerevoli dichiarazioni pubbliche di donne autorevoli, che affermano di portare il velo per libera scelta vengono accolte con un implicito sorrisetto di incredulità.

Il libro peraltro non rinuncia ad offrire una chiave di lettura forte - quella del protagonismo femminile – mostrando come non da oggi il mettere e il togliere il velo si iscrivano ambedue in precise strategie delle donne, di volta in volta finalizzate alla resistenza anticoloniale, all’affermazione di un femminismo islamico, all’ingresso nello spazio pubblico e infine, ai giorni nostri, ad “una precisa scelta di autorappresentazione nello spazio pubblico e di espressione di un differente canone estetico” (p. 117). Con quest’ultima si manifesta la comparsa, accanto all’islam politico, di un sempre più diffuso “islam sociale” a cui si collega la rapidissima espansione di una “moda islamica” che alimenta un fiorente mercato e a cui attingono larghe fasce di donne, perlopiù giovani, urbanizzate, borghesi. Al punto che, alla fine di questo denso volume ci si chiede se non stiamo assistendo ad una rapida secolarizzazione dell’islam che sempre più sta togliendo allo hijâb (il foulard che lascia il volto scoperto ed è la forma più diffusa del “velo islamico”) i suoi significati religiosi per trasformarlo in un prodotto di consumo culturale o estetico.

La stessa domanda suggerisce il libro del sociologo tunisino Mohamed Kerrou, Hijâb. Nouveaux voiles et espace publics (Nuovi veli e spazi pubblici, Tunis, Cérès, 2010) dove il velo viene definito, tra l’altro, come un fenomeno estetico « che rinvia ad una cultura individuale dell’essere e dell’apparire ». Questo libro ha diverse cose in comune con quello della Pepicelli: lo sguardo sul velo come pratica sociale, l’attenzione ai significati che gli attribuiscono coloro che lo indossano, la scelta di corredare il testo con un ricco repertorio di fotografie la cui accurata selezionate denota una evidente empatia. Al contempo i due libri sono complementari: Kerrou scrive da “dentro” ai paesi del velo e trasmette la diffusa percezione di un Occidente ipocrita nel quale “la difesa dei diritti umani si accompagna ad una dominazione cinica e arrogante” e di una Europa inquieta ed esitante  di fronte all’emergenza e alla recrudescenza dei “veli islamici”.

Kerrou distingue tra “veli tradizionali”, veli “islamisti” o “politici” e “nuovi veli” : questi ultimi, oggetto della sua ricerca, “meno politici che religiosi e meno religiosi che culturali, simbolici, identitari.” (p. 47) Da solide indagini empiriche almeno due dati, concernenti i “nuovi veli”, appaiono orami assodati,: solo molto raramente – al di fuori dei pochi paesi dove il velo è obbligo giuridico – essi sono indossati per imposizione altrui; inoltre, lungi dal rendere la donna invisibile, le assicurano visibilià nello spazio pubblico. Come se non bastasse, la prospettiva diffusa del velo come simbolo di oppressione delle donne viene messa in discussione dalla correlazione esistente tra uso crescente del velo e crescente presenza delle donne nello spazio pubblico - un fatto storico inedito nel mondo arabo-isalmico. Alla decostruzione di alcuni stereotipi Kerrou contribuisce altresì con accurate osservazioni intorno alla nuova estetica dei veli palesemente finalizzata alla valorizzazione del corpo femminile, alla “sorellanza” osservabile tra le giovani velate (ma anche tra le velate e le non velate che si frequentano intensamente nello spazio pubblico) fatta di una complicità più trasgressiva che remissiva; al rovesciamento consapevole, ottenuto con il velo, del tradizionale assoggettamento femminile allo sguardo maschile. Il velo infine, nella misura in cui offre una rassicurante appartenenza comunitaria a fronte delle ansie e delle incertezze legate alla globalizzazione e alla dispora, è anche il segno più visibile della crescente affermazione di un “islam del mercato” di cui sono portatrici le nuove borghesie urbane e i cui tratti sono il consumo di massa, l’affrancamento dalla norma religiosa e la globalizzazione dell’universo vestimentario. Torna allora ad affacciarsi la domanda: dove porterà questo “nuovo islam”? Ad una società più secolarizzata, sul modello dell’Europa continentale, o ad una società comunitarista di stampo anglo-sassone?

Il libro di Kerrou, uscito l’anno precedente la rivoluzione tunisina, lascia la questione in sospeso e conclude invece denunciando “una polarizzazione artificiale ed eccessiva dei dibattiti pubblici sul ‘velo integrale’ al momento in cui tutti i paesi del pianeta si confrontano con la crisi finanziaria ed economica, la crescita della disoccupazione e delle disugauglianze…” Si riferiva alla Francia ma oggi le stesse parole possono applicarsi alla Tunisia, cui le prime elezioni democratiche della sua storia hanno dato un governo a maggioranza islamica e dove prontamente frange estremiste si sono mobilitate a favore del velo integrale – il niqâb – contrastate a fatica da una borghesia laica sempre più spaventata. L’unica certezza, in questo contesto, è che la posta in gioco simboleggiata dallo hijâb appare strettamente legata sul piano economico alla globalizzazione e sul piano politico alla tumultuosa “emersione del potere femminile nelle sfere pubbliche”.