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Un movimento esploso e concluso con la stagione degli anni '70, o un'esperienza viva e vegeta che lotta insieme a noi? Nel libro di Lea Melandri "Amore e violenza. Il fattore molesto della civiltà", un'immersione dentro la storia del femminismo, fatta da una sua protagonista

Uno, due...
molti femminismi

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Tra le tante modalità di rievocare il femminismo degli anni ’70 emergono, sulle altre, alcune versioni principali. Prediletta dal mondo maschile, ma non solo, è quella che considera quel movimento come uno dei tanti di una stagione ribelle, che produsse trasformazioni radicali attraverso le quali la società italiana riuscì finalmente ad approdare sulla sponda della modernità. Interpreta quindi i mutamenti nei comportamenti delle donne, e poi nella legislazione e nelle strategie dei partiti politici intorno alla ‘questione femminile’, come effetti di un profondo moto innovativo che aveva percorso tutto il paese; il cui punto più tumultuoso può essere collocato all’incirca negli anni ’75-’77, per poi spegnersi lentamente.

La polarità opposta legge invece l’esplosione femminista come un fenomeno del tutto unico, originale e duraturo nel tempo; non una semplice manifestazione rivendicativa, per quanto radicale e sovvertitrice di consuetudini e tradizioni; bensì una autentica e profonda rivoluzione nelle vite di molte migliaia di donne e nella concezione della politica in generale. Tali caratteristiche ne fanno un evento epocale, i cui effetti si fanno ancora sentire.

Questa duplice immagine - un femminismo ormai sepolto da un lato; oppure una esperienza viva e vegeta che lotta insieme a noi, dall’altro – mantiene una sua robustezza, nonostante l’età ormai pienamente adulta e i segni fisici di incipiente vecchiaia. Altri resoconti non del tutto aderenti a una delle due polarità indicate, finiscono per essere poco convincenti. Come se la storia reclamasse un esito del tutto positivo o negativo delle vicende raccontate; qualcosa che non è ancora possibile stabilire con sicurezza.

Il punto intorno a cui le due interpretazioni divergono riguarda, tra l’altro, differenti concezioni relative al tempo. Nella prima modalità, gli eventi fanno parte di un insieme di fenomeni che si evolvono come fossero esseri viventi, attraverso una serie di scansioni più o meno uniformemente estese lungo una linea cronologica orizzontale e progressiva: un movimento nasce, cresce e si sviluppa fino a raggiungere un apogeo; poi declina e muore. Dalle sue ceneri derivano discendenti ed eredi, oppure la linea si estingue. All’opposto, si erge un organismo dotato di una inesauribile energia interna che, simile a una divinità poderosa, è immune al trascorrere degli anni, e a intervalli si manifesta in tutta la sua meravigliosa esuberanza e vigore. D’accordo con questa versione, collocato entro fluttuazioni temporali che alternano prolungati periodi in cui tanto dinamismo sembra assopito, il femminismo è tutt’altro che finito o spento.

Grande protagonista della rivoluzione delle donne degli anni ’70, autrice di molti contributi essenziali per ricostruire quell’esperienza, dopo il provocatorio esordio del 1977 L’infamia originaria, Lea Melandri ha di recente pubblicato, tra gli altri, Una visceralità indicibile (2000), Le passioni del corpo (2001), Come nasce il sogno d’amore (2002), Preistorie. Di cronaca e d’altro (2004). La più recente fatica - Amore e violenza - dal titolo un po’ Sturm und Drang, mostra quanto sia ancora persistente l’idea di una duplice e opposta temporalità del femminismo, diviso tra moto continuo e tempo del Big Bang, tra fallimenti dell’emancipazione e istanze critiche radicali.

Al centro dell’analisi di Melandri è quello che lei chiama “il fattore molesto”, il dato che disturba, distruttore della diade amorosa, ciò che si insinua nella coppia fusionale; l’aspetto violento nascosto dentro l’amore, “per quel retaggio preistorico che si porta dentro: la nostalgia dell’originaria unità a due”. (p. 65) Dei cinque capitoli, il secondo – “Madri amanti” – contiene pagine di critica assai brillanti e condivisibili sulla rappresentazione del femminile nell’era berlusconiana, in cui trionfa la polarità madre-prostituta, il corpo materno e quello erotico, variamente miscelati quando si vuole parlare dei vantaggi del “fattore D” nelle aziende, nelle istituzioni, nei media.

In Amore e violenza Melandri dialoga spesso con alcune figure privilegiate: emerge una luminosa Rossana Rossanda, alla quale il libro è dedicato, e poi Carla Lonzi, Asor Rosa. Ma su tutte giganteggia Elvio Fachinelli, con il quale Melandri ha collaborato a lungo negli anni del collettivo intorno alla rivista “L’erba voglio”. Studioso e terapeuta alquanto eccezionale nel panorama della psicoanalisi italiana del periodo, Fachinelli si distingue per l’intelligenza con cui ha cercato di interpretare i movimenti degli anni ’70, come mostrano i saggi pubblicati su “Quaderni piacentini” nel ‘68 – famosi Il desiderio dissidente e Gruppo chiuso o gruppo aperto? -, accanto alla raccolta Il bambino dalle uova d’oro (1974) da poco ristampata.

Questi interlocutori costituiscono l’indispensabile intelaiatura per mettere a fuoco il principale riferimento affettivo, politico, culturale di Melandri: l’esperienza dei collettivi milanesi che si riunivano a via Col di Lana e in seguito a via Cherubini, cellula germinale da cui ebbe poi origine il gruppo fondatore della Libreria delle Donne. Leggendo le belle pagine di rievocazione critica della giovane cresciuta in provincia che arriva a Milano negli anni ’60, nel decennio successivo vede la propria esistenza trasformarsi radicalmente e poi sente di essere trascinata nell’imprevisto scatenato dal movimento delle donne, si accendono molte curiosità. Ci si rende conto, infatti, di quanto poco ne sappiamo di quelle esperienze, come anche dei tanti altri femminismi del paese.

Da questo punto di vista Amore e violenza costituisce un invito rivolto alle donne della sua (che è anche la mia) generazione e a quelle delle generazioni successive, a impegnarsi per illustrare le infinite, multiformi, differenti pratiche femministe esistenti; spesso poco appariscenti, eppure diffusi in ogni angolo del paese negli anni ’70, in molti quartieri delle città più grandi; come si deduce dal bell’”Almanacco” che le edizioni delle donne pubblicarono nel 1978 documentando la presenza di gruppi da Gela a Pinerolo, da Subiaco a Iglesias. La grande maggioranza dei collettivi di donne era lontanissima, nelle pratiche e nella composizione, da quelli più noti nella capitale lombarda: diseguali essendo allora, come oggi, i modelli familiari, culturali, socio-economici e di attivismo politico prevalenti nell’una e nell’altra città, in questa o quella zona di una stessa città. E tuttavia, di tanta ricchissima e diversificata pluralità di esperienze sappiamo ancora troppo poco. Né si può contare su un insieme di profili biografici a tutto tondo, quel poco esistente fuori dagli stereotipi diffusi dai media relegato com’è al cinema e alla letteratura.

Crescere a Foggia o a Cuneo, a Latina o Campobasso, è stato ed è - per le donne di 50 anni fa come per quelle di oggi – assai diverso che crescere a Milano, Roma o Napoli. Il mito della comunicazione globale fa spesso dimenticare quanto, in un piccolo paese o nella grande città, appaiano difformemente declinati i pregiudizi anti-femminili e la marginalità delle donne. Ancora meno ci rendiamo conto di quali siano i referenti culturali delle più giovani, diversissimi da quelli delle femministe storiche. La misoginia e la commercializzazione del corpo femminile esplosi sotto il regime berlusconiano non soltanto risultano diversamente assimilati e influenti nel nord-est da come invece sono in Irpinia o in Friuli, ma rimandano a una situazione entro la quale – per riprendere un punto importante sollevato da Melandri – “l’allargamento della cittadinanza alle donne, oltre a essere tuttora ‘imperfetta’, ha continuato a convivere con l’ideale di un femminile come mancanza, subumanità, soggetto debole da proteggere, tutelare, difendere dai propri cattivi impulsi.” (p. 69)

L’esplosione delle manifestazioni di massa delle donne il 13 febbraio scorso, iniziativa peraltro criticata da Melandri, è un segnale importante di quanta vitalità e voglia di liberarsi da questo oppressivo fardello siano stati profusi e iniettati per oltre quattro decenni dal femminismo nella società italiana. E tuttavia, è anche chiaro quanto poco prevedibili sono ancora le forme che potrebbe assumere questo urlo collettivo dove convivono insieme sentimenti e atteggiamenti opposti e spesso contraddittori: lo sdegno e l’orgoglio, il desiderio e la prudenza, la fermezza e gli slanci, i ritardi dell’emancipazione e le audacie tecnologiche post-femministe.

Lea Melandri, Amore e violenza. Il fattore molesto della civiltà, Bollati Boringhieri, Torino, 2011, pp. 165, € 15,00