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I percorsi migratori implicano la ridefinizione e il mutamento dei modelli maschili tradizionali, lo racconta il libro "Uomini in movimento" di Francesco Della Puppa letto per inGenere da Stefano Ciccone

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La giornalista Jennifer Allsopp, in un articolo dello scorso settembre, ha osservato quanto la rappresentazione degli uomini nella “crisi dei migranti e rifugiati” in Europa mostri maschilità impreviste. Padri in lacrime per i figli morti, padri con i figli in braccio come in un mutamento dell’allegoria tradizionale della Madonna con bambino, ma anche il padre che cade col figlio tra le braccia per lo sgambetto della giornalista ungherese, l’uomo che cammina nel nulla con la bambina in braccio sotto la pioggia o quello che passa un neonato attraverso il filo spinato. Uomini che mettono in scena la propria vulnerabilità, vittime di guerre in fuga, uomini che si prendono cura. Ma anche uomini che, fuggendo, hanno rifiutato di prendere parte alle guerre fratricide in “Patria”, che non hanno risposto al richiamo identitario di presunti Padri. Tutt’altro dall’invasione di maschi adulti pronti a occupare il nostro territorio e insidiare le nostre donne.

Il caso ha voluto che mi sia stato chiesto di recensire il libro di Francesco Della Puppa “Uomini in movimento” poco dopo aver letto questo articolo e mentre mi accingevo a partecipare, a Barcellona, a un incontro internazionale dallo stesso titolo “Men in movement.Trans/forming Masculinities in Politics, Care, and Media”.

Gli uomini sono in movimento, si muovono attraverso i confini di filo spinato eretti dalla civile Europa ma si muovono anche dai ruoli e dai riferimenti tradizionali, dalle genealogie maschili che hanno fornito loro fino ad ora identità e senso.

Il libro di Francesco Della Puppa contiene nel titolo questa ambivalenza di cui dà conto a proposito degli uomini bengalesi in Italia coinvolti in un movimento migratorio nello spazio che diviene inscindibile da un movimento attraverso differenti declinazioni della mascolinità.

La novità diviene visibile anche perché muta il punto di vista:  “nella sociologia delle migrazioni, il soggetto centrale su cui si è focalizzata l’attenzione per molto tempo è stato il genere maschile, ma la sua identità di genere è stata raramente problematizzata.”[1]

La ricerca mostra come anche nelle comunità bangladesi, tra diaspora e paese d’origine, le maschilità siano plurali, in evoluzione, in conflitto tra loro e spesso in dinamiche controverse in cui è difficile districare il vecchio dal nuovo.Qualcosa di molto lontano dall’immagine stereotipata che i nostri media riproducono di uomini immigrati rigidamente riproduttori di relazioni di dominio e controllo e di riaffermazione immobile della “tradizione”.

Si tratta di un movimento che trasforma anche le società di origine: le rappresentazioni e le aspettative delle famiglie, le relazioni tra generazioni e anche i percorsi di costruzione delle identità di genere. E opportunamente Francesco Della Puppa ha scelto di svolgere la sua ricerca, basata su interviste in profondità e racconti di vita, ma supportata da solidi riferimenti a dati anche quantitativi per definire i fenomeni migratori e la loro evoluzione, non solo nella comunità bangladese in Italia ma anche presso le famiglie d’origine in Bangladesh.

Effettivamente la sua sola presenza in Bangladesh, per intervistare le famiglie rimaste è già un evento che non si sarebbe mai verificato, che genera confronti impensabili pochi anni fa e che dà conto di una trasformazione già avvenuta.

La partenza per il percorso migratorio corrisponde spesso con l’uscita dalla famiglia e con la transizione all’età adulta e dunque alla costruzione di una maschilità compiuta. Questo processo si mostra come lungo e complesso, segnato da successivi “atti istitutivi”della maschilità come costruzione sociale e al tempo stesso plurale e in continua evoluzione. La partenza per il Bidesh (il mondo fuori dal Bangladesh), il trovare un lavoro, il raggiungimento di una condizione economica di autosufficienza in Italia, l’invio di rimesse a casa, il matrimonio,l’ottenimento del permesso di soggiorno, magari della cittadinanza, e poi il ricongiungimento con la donna sposata in Bangladesh, la nascita dei figli, l’eventuale ulteriore migrazione verso la Gran Bretagna per far studiare figli (e figlie) e per emanciparsi dal lavoro operaio super sfruttato. Ognuno di questi passaggi, analizzato nella ricerca, può rappresentare occasione di riconferma delle aspettative familiari e dei legami intergenerazionali o al contrario generare nuovi conflitti, innovazioni e spostamenti.

L’invio di rimesse a casa, ad esempio, può spostare gli assi di potere tra generazioni incrinando l’autorità del “guardiano della famiglia”; il ricongiungimento, con la costituzione di una “famiglia nucleare” in Italia, può interrompere l’invio di risorse finanziarie ma anche ridurre l’investimento simbolico nella famiglia allargata e nel potere patriarcale che la plasma.

Gli stessi matrimoni “combinati” appaiono in una nuova complessità nella quale i vincoli tradizionali, gli spostamenti di potere tra le diverse generazioni, la stessa soggettività femminile, rinegoziano continuamente spazi, poteri e rappresentazioni rielaborando riferimenti culturali comuni in nuovi contesti sociali e relazionali. E così il matrimonio combinato dalle famiglie, quello concertato con gli sposi, quello in cui la sposa ha voce in capitolo, fino al matrimonio scelto liberamente, magari con una donna straniera, convivono in uno scenario di continue rinegoziazioni di ruoli e significati.

Le storie narrate da La puppa sono spesso storie di solitudine nelle nostre periferie, ma le stesse solitudini hanno diverse declinazioni di genere: la solitudine degli uomini per anni a “non vivere” per mandare i soldi a casa e accumularne abbastanza per farsi raggiungere dalla moglie magari sposata anni prima e dai figli, e la solitudine delle donne, dopo aver raggiunto il marito, in un paese estraneo, in una casa in una periferia, priva di qualunque rete relazionale, ad aspettare l’uomo che torna stravolto da dieci ore di lavoro. Così il ricongiungimento, vissuto dagli uomini come un “tornare a vivere”, assaporare una “normalità” sconosciuta e diviene per le donne una deludente quotidianità e una pesante regressione.

Ma, come osserva l’autore, le donne descritte da queste narrazioni, “lungi dall’essere meri oggetti passivi e silenziosi, emergono in quanto soggetti che prendono parola, esprimono dissenso, impongono prospettive, danno spessore alla loro presenza”[2] intervenendo sulle rappresentazioni maschili e anche sulle scelte migratorie nonché sulla gestione della sessualità e della contraccezione.

E così sono spesso le donne, nei racconti degli intervistati, a determinare la scelta di una nuova migrazione verso il Regno Unito dove la presenza di una comunità immigrata più larga, con proprie istituzioni comunitarie e maggiori opportunità di occupazione femminile, permette alle donne di uscire dall’isolamento.

Ovviamente non ci sono solo i segni di mutamento, le rotture e le innovazioni: ci sono anche i ritorni indietro, le riaffermazioni più o meno violente di rapporti di potere tra i generi.

“La migrazione e il ricongiungimento, però, pur riproponendo il modello patriarcale possono inibire una sua riproduzione lineare e possono ridefinirlo e rinegoziarlo entro una pluralità di modelli familiari e una molteplicità di posture del maschile: ciò può rappresentare un’opportunità di smarcamento dalle responsabilità del proprio dominio e dal dovere di continuare a sostenerlo, un’occasione di conquista di relazioni più libere o, al contrario, può portare a un ripiegamento entro le rigidità di un modello ostentatamente asimmetrico, oppure, ancora, una continua lotta interiore fra sollecitazioni al cambiamento e habitus sedimentati.”[3]

Ognuno di questi passaggi è narrato attraverso le parole dei protagonisti e l’attenta lettura dell’autore mostrando come possa offrire occasioni per uno scarto, per un’innovazione o per il sopravvento della nostalgia per l’ordine originario e lo sforzo della sua riaffermazione.

Gli strumenti e i riferimenti teorici si ritrovano soprattutto nelle categorie di Bourdieu di violenza simbolica, di incorporazione dell’habitus, della pervasività del simbolico patriarcale ma anche nelle categorie goffmaniane per analizzare le strategie di autorappresentazione dei migranti con l’intervistatore, nella ribalta contesto italiano e nel retroscena della percezione della famiglia di origine e la consapevolezza di leggere le maschilità nelle migrazioni con la lente dell’intersezionalità e dunque tenendo insieme l’asse del conflitto tra i generi, le dinamiche di classe, i conflitti interculturali, la categoria delle generazioni. Il testo propone in conclusione un’utile mappa degli studi relativi alle dinamiche di genere nelle migrazioni e in particolare alla mascolinità per contribuire al vuoto d’attenzione che, soprattutto nel nostro paese ha segnato quest’area di riflessione. E forse anche questa è una novità di cui dare conto: la crescita di giovani uomini che scelgono, nel proprio percorso di ricerca, mi mettere al centro una riflessione critica sulla maschilità, come fa Della Puppa. Oltre a offrire una prospettiva di ricerca innovativa e un’occasione per conoscere una realtà “invisibile” il libro mostra una spinta a condividere le emozioni, le speranze e le sofferenze degli uomini intervistati. Questa empatia, se fatica ad emergere nel linguaggio del testo spesso troppo rigidamente legato al canone del “resoconto di ricerca” (forse frutto dell’origine in una tesi di dottorato), emerge invece nei brevi brani del diario etnografico e nell’introduzione.

Il racconto di Della Puppa ci presenta  uomini stretti in una difficile transizione, che scelgono spesso di essere padri differenti da quelli conosciuti, disposti ad accettare le scelte delle figlie e intenzionati a investire sulla loro formazione, o che rinegoziano il proprio ruolo rispetto alla famiglia, alla moglie o al proprio padre. Uomini che sentono di appartenere a una “generazione sacrificata”[4], che ha accettato un declassamento sociale e un brutale disciplinamento del proprio corpo nel lavoro operaio, la sopportazione delle politiche vessatorienazionali e locali, e che investe sulla generazione successiva a cui è disponibile a riconoscere più libertà dai riferimenti identitari d’origine. Purtroppo questi mutamenti vengono resi invisibili e spesso contrastati dalle politiche di “governo” dell’immigrazione che costringono e ricacciano ciclicamente nella clandestinità e nell’invisibilità, che impongono incomprensibili percorsi sempre suscettibili di espulsione (“il permesso di soggiorno è una malattia alla testa[5]”) rafforzando paradossalmente vincoli tradizionali e identitari. Anche dopo la cittadinanza formale “sarai sempre un cittadino di terza classe, italiano solo sui documenti.

In questa transizione appaiono come un fardello e una zavorra pesanti il ricatto dell’onore, l’obbligo di corrispondere alle aspettative sociali come uomo: il potere maschile emerge nella sua natura oppressiva delle donne e dei figli ma anche come dispositivo oppressivo per questi uomini. Sia che si tratti del “guardiano della famiglia” rimasto in Bangladesh o del primo migrante con la responsabilità di restituire risorse alla famiglia , o di marito e padre angosciato dalla possibile regressione sociale per la moglie o le figlie. “Il processo di costruzione dell’identità adulta maschile si configura come un movimento continuo e senza fine”[6] che può produrre mutamento ma anche essere risucchiato “nella nostalgia di un ordine definito “tradizionale’.” L’esito di questo mutamento sta anche nella capacità di offrire differenti riferimenti di senso alle esperienze maschili. Una responsabilità che è anche della società europea, e degli uomini di questo continente.

 NOTE

[1] p.166

[2] p.164

[3] p.173

[4] p.137

[5] p.156

[6] p.22