Politiche

Secondo il Global Gender Gap Report l'Italia si trova all'82esima posizione, in caduta libera rispetto allo scorso anno. Con Simona Scarpaleggia, esperta di politiche di genere a livello internazionale, cerchiamo di capire a che punto siamo

A che punto siamo con
le politiche di genere

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Foto: Unsplash/ Steve Huntington

Simona Scarpaleggia, CEO di Ikea Svizzera dal 2010, è stata co-fondatrice di ValoreD in Italia e di Advance - Women in Swiss Business e, dal gennaio del 2016, è co-chair dell’High Level Panel delle Nazioni Unite per l’Empowerment economico delle donne. L’abbiamo raggiunta telefonicamente per discutere insieme lo stato attuale delle battaglie per le donne sul piano internazionale. Siamo partite dalla recente pubblicazione del Global Gender Gap Report 2017 da parte del World Economic Forum. L’Italia si trova all'82esima posizione, in caduta libera rispetto allo scorso anno. Un dato estremamente rilevante e, forse, anche inaspettato, considerando che l’impressione generale di questi ultimi anni era che – finalmente – di questi temi si parlasse di più, che il dibattito pubblico fosse più informato, che nelle aziende il tema della diversity stesse prendendo sempre più piede.

Che cosa ci siamo perse? 

Concordo, il report presenta dati drammatici sulla situazione dell’occupazione femminile e, addirittura, sulla differenza in termini di salute e di educazione: le giovani donne, in Italia, vengono iscritte a scuola più raramente rispetto ai loro coetanei maschi. Credo anch'io che ultimamente se ne parli di più e questa è per certo una cosa positiva, perché, quando cresce il livello di attenzione e di consapevolezza, le cose cominciano a muoversi. La mia impressione è che quanto accaduto negli ultimi due anni sia legato a fenomeni diversi, tra cui questa grande instabilità politica, a sua volta portatrice di una grande incertezza, che hanno “distratto l’attenzione”. La verità, infatti, è che nel nostro pensare pregiudiziale ancora oggi non si capisce che questo è un tema economico cruciale, non un fatto “estetico”. Lo dico pensando anche al mondo aziendale: le aziende a volte sono convinte di aver risolto tutto con la nomina di un diversity manager, mentre serve un impegno contestuale molto più ampio a livello di management e di visione.  

Lei è co-chair dell’High-Level Panel delle Nazioni Unite sull’empowerment economico femminile. Da dove è nata l’idea di questo gruppo di lavoro e con quale scopo?

Il panel è stato patrocinato e lanciato da Ban Ki Moon quando era Segretario delle Nazioni Unite, perché dai dati emergeva che per raggiungere l'obiettivo 5 di sviluppo sostenibile, quello che riguarda la parità di genere, ci sarebbe voluto troppo tempo. Gli obiettivi di sviluppo sostenibile hanno come orizzonte temporale il 2030, in questo caso si stimava che, allo stato attuale delle cose, sarebbero stati necessari 170 anni. Peraltro, nel report 2017 del World Economic Forum è indicato che ce ne vorranno 217, quindi la situazione è persino peggiorata. L’intento, dunque, era di cominciare a mettere in piedi iniziative che accelerassero questo processo. Ai tempi, il Segretario Generale ha pensato di coinvolgere persone che provenissero da diverse aree dell’economia e della società: vi erano rappresentanti del settore privato - come me -, dei governi, delle Ong, in modo tale da rappresentare prospettive diverse. Ikea Svizzera è stata identificata come un’azienda interessante da questo punto di vista perché noi abbiamo raggiunto la parità di genere già da tre anni, siamo certificati al massimo livello –attraverso la certificazione Edge – da più di tre anni, abbiamo appena ricevuto la nuova certificazione dove è registrato un ulteriore miglioramento di alcuni parametri, quindi siamo ben posizionati da questo punto di vista. Il panel aveva l’obiettivo di dimostrare che c’era una forte volontà istituzionale, di segnalare in maniera forte che era il momento giusto, c’era un senso d’urgenza di interventi di vario tipo.

E com'è andata?

Noi membri abbiamo pubblicato due rapporti[1]. È stata raccolta una rilevante mole di materiale che dà indicazioni inequivocabili: c’è una chiara evidenza che l’empowerment economico delle donne porta a una crescita del prodotto interno lordo e a un miglioramento delle condizioni sociali generali, in tutti i paesi, anche a diversi livelli di sviluppo. Tuttavia, nonostante i dati, questo investimento sulle donne non avviene. E allora abbiamo cominciato a chiederci perché non avvenga, quali sono gli ostacoli e quali, invece, le opportunità che possiamo evidenziare, quali sono le azioni realizzabili e quelle già realizzate in diverse parti del mondo.  

Quali saranno i prossimi passi.

Per me è estremamente importante che questo tema sia sulla scrivania e nella testa dei ministri dell’Economia e delle Finanze e dei ministri del Lavoro. Siamo in un periodo di grande turbolenza, in Europa e nel mondo, sul piano politico, degli squilibri tra i paesi, e vi sono rischi di conflittualità di vario tipo. Quindi l’attenzione si sposta su temi che – erroneamente – vengono considerati prioritari. “Pensiamo al lavoro” è oramai un mantra: certo, pensiamo al lavoro e quindi al lavoro femminile. Non esclusivamente, ovviamente, però se “pensiamo al lavoro” nella testa delle persone può voler dire “effettuare investimenti”, senza considerare quale possa essere l’impatto di questi investimenti sull’occupazione femminile nello specifico, credo sia un problema. Noi, per esempio, proponiamo il gender budgeting per i governi. Perché questo vuol dire considerare l’impatto di qualsiasi scelta di politica economica sulla popolazione femminile, il che non esclude benefici generali per l’economia - anzi, noi sosteniamo che li potenzi perché – come confermano molti studi -  l’incremento dell’occupazione femminile porta una richiesta maggiore di servizi, che genera, a sua volta, un’ulteriore crescita dell’occupazione. Io parlo dei governi ma le aziende devono fare la loro parte, ciascuno di noi deve.

A cosa si riferisce in particolare?

Ultimamente si parla molto di digitalizzazione. Giustamente, perché sta entrando prepotentemente in tutte le nostre attività operative e lo farà sempre di più. È un fenomeno inevitabile, che non si può fermare. Io non do un giudizio negativo o positivo su questo – anche se tendenzialmente è positivo, perché se si sviluppano strumenti che possono migliorare la qualità della vita, mi sembra un’occasione. Il punto è che questa digitalizzazione, se non è affrontata nel giusto modo e con la corretta prospettiva, può portare a problemi occupazionali di notevole portata. E le donne saranno quelle più pesantemente colpite, perché oggi nel mondo del lavoro le donne generalmente ricoprono ruoli di livello più operativo – statisticamente, perché man mano che si sale a livello di carriera le donne sono sempre meno – che saranno proprio quelli maggiormente colpiti dall’automazione e dall’avanzamento tecnologico. Un altro problema drammatico è che oggi le donne, mediamente, hanno salari bassi, una permanenza nel mondo del lavoro retribuito in genere significativamente più corta rispetto agli uomini, un alto tasso di lavori part-time e un futuro dove le loro pensioni saranno ben al di sotto della fascia di povertà. Questo genererà un ulteriore problema sociale, perché la situazione di squilibrio di questi anni porterà ad avere, nei prossimi decenni, tantissime persone, in gran parte donne, che creeranno una nuova sacca di povertà.

Analizzando le attività e la struttura delle istituzioni europee, colpisce l’attenzione che, almeno formalmente, viene data ai temi di genere, alla parità di genere. Se ne discute molto, rispetto a quanto si faccia nella politica italiana. L’impressione è che, a livello internazionale, questo tema sia molto più sentito e molto più presente, come priorità, di quanto poi in realtà avvenga all’interno dei singoli paesi. Dal suo punto di vista ha potuto osservare questa divergenza? 

Mi ritrovo abbastanza in quello che dice. C’è un’attenzione forte, soprattutto gli obiettivi di sviluppo sostenibile sono veramente ai primi posti nell’agenda delle organizzazioni internazionali. Ci sono paesi che sono più avanti di altri, perché hanno preso più a cuore la questione. Penso, per esempio, a Canada, Finlandia, Svezia, Costa Rica. Ci sono paesi, insomma, che si stanno impegnando, che stanno lavorando sulla legislazione e stanno adottando misure specifiche, ad esempio il Canada già da qualche anno implementa il gender budgeting. In altri l’impegno è sicuramente inferiore. L’Italia da questo punto di vista non mi pare che brilli. E mi dispiace. Sicuramente, essere in perenne campagna elettorale non aiuta. Mi piacerebbe vedere sia nei programmi che nei piani di governo un messaggio di lungo periodo, che abbia anche questo tema all’interno.

Ci sono alcune azioni che è possibile intraprendere a livello internazionale: penso - ad esempio - all’introduzione di correttivi all’interno degli accordi commerciali che impediscano una ripercussione negativa sulle donne e, anzi, rendano il commercio un’opportunità per l’inclusione delle donne nell’economia. Allo stesso tempo, però, il settore dove maggiormente si potrebbe fare la differenza, che è quello delle politiche sociali rimane gelosamente conservato nelle mani dei governi nazionali. Secondo lei le istituzioni internazionali come l’Onu, ma anche l’Ue, quale margine di pressione hanno in questo senso?

Dal punto di vista concreto l’Onu può fare delle raccomandazioni. L’Unione europea potrebbe fare di più, avrebbe più possibilità di generare interesse per lo sviluppo di certe normative. C’è una situazione davvero molto particolare in questo momento, come Europa. Io penso sia molto importante che l’Europa sia una comunità e riacquisti più centralità, però è evidente che il momento non è semplice, con paesi che scelgono di abbandonarla, paesi che restano ma decidono di non seguirne le linee. C’è anche un certo distacco dall’istituzione, di cui mi dispiaccio, però penso che questo tema possa essere un tema aggregante. Soprattutto se si affronta dal punto di vista non solo dell’equità sociale e dei diritti umani – che è paradossale che ancora oggi si debba sostenere - ma anche del tema economico, che è importante e sul quale potrebbero fare leva tutti gli stati membri, indipendentemente dall’orientamento politico dei loro governi.

Leggevo sul rapporto Ocse che le raccomandazioni sull’Italia riguardano soprattutto le donne nelle fasce medio-basse perché, nonostante avessimo conquistato i primi posti in Europa per quanto riguarda la presenza delle donne nei CdA, l’accesso al lavoro è ancora estremamente difficile.

Le quote servono a tutelare entrambi i generi, non solo quello femminile, nel caso di un grande sbilanciamento. Invece spesso rischia di diventare una semi-ghettizzazione: non più del 30 per cento, non sia mai... Detto questo, io non sono né contro né a favore delle quote: Ikea ha raggiunto la parità senza quote. Ci siamo posti questo obiettivo e lo sabbiamo raggiunto. Ho visto anche che in molti paesi l’aver introdotto un sistema di quote ha fatto sì che improvvisamente nei CdA ci fossero più donne, laddove prima non ce n’era nessuna o ve ne erano pochissime. Il punto vero, però, non sono i consigli di amministrazione: stiamo parlando di poche centinaia di donne coinvolte, su una popolazione di milioni. Il punto vero è dare pari opportunità a uomini e donne nella società, a tutti i livelli. Dall’infanzia, con un sistema educativo che non crea differenze di genere, a quando entriamo nel mondo del lavoro, fino alla pensione.

Un’ultima domanda, su di lei. Ha avuto una carriera straordinaria, tantissime soddisfazioni professionali, è riuscita anche a investire tempo ed energie sulla sua famiglia. Molte donne si sarebbero sentite appagate, invece lei ha deciso comunque di destinare parte del suo tempo al sociale, impegnandosi nell’ambito istituzionale. Volevo chiederle che cosa l’ha spinta a farlo e che cosa le rimane di questa esperienza. 

Io penso che tutti noi abbiamo questa pulsione verso la solidarietà, non siamo fatti per vivere da soli, isolati. Lavorare per la parità di genere è il mio impegno sociale, altre e altri si impegnano su tematiche diverse; penso, però, sia importante che tutti noi abbiamo un impegno fuori dalla nostra dimensione individuale. Ed è anche arricchente, io mi sento meglio facendolo, sono contenta di farlo. E, poiché ho sempre lavorato in azienda, e quindi questo è il mio mondo, dove riesco ad avere più influenza, ho cominciato dal mondo aziendale: ho messo in pratica delle iniziative che andavano nella direzione della parità di genere, ho cominciato ad aggregare altre aziende, a condividere strumenti. Piano piano, nel momento in cui ho avuto più responsabilità e più visibilità, mi sono poi impegnata nelle altre opportunità che mi si sono presentate, come questa del panel delle Nazioni Unite. C’è un filo conduttore, che è la voglia di essere utile, di aiutare gli altri. Penso che faccia parte di tutti noi. Lo spero. 

Note

[1] Leave no one behind, a call to action for gender equality and women's economic empowerment e Leave no one behind, taking action for transformational change on women's economic empowerment