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L'Italia e il doppio sì (alla cura e al lavoro) difficile da realizzare, le proposte per la conciliazione del gruppo maternità&paternità e il Jobs Act: qualcosa si muove

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foto Flickr/David Veksler

Nelle  scorse settimane il Gruppo maternità&paternità ha fatto circolare sui giornali e sul web quattro suggerimenti al governo per il nuovo decreto sulla conciliazione previsto dal Jobs Act, che trovate spiegati nell'articolo che segue.

Nelle ultime ore, con molto piacere abbiamo constatato che lo schema di decreto legislativo ha ripreso almeno due dei suggerimenti del gruppo: la possibilità di ottenere un part time collegato al congedo parentale (superando lo scoglio dell'inapplicabile "fruizione oraria del congedo") e la destinazione selettiva degli incentivi alla contrattazione di secondo livello collegata a misure aziendali di conciliazione. Non solo, l'aver elevato a 12 anni il termine di età del figlio/a per usufruire dei congedi parentali riprende una delle nostre vecchie richieste. Inoltre, il decreto raccoglie almeno in parte lo spirito del nostro gruppo - orientare in senso universale le misure di welfare per le madri e i padri - allargando alcune delle norme di tutela previste per i dipendenti alle lavoratrici e ai lavoratori autonomi e libero-professionisti.  

Nel frattempo sembra che il decreto buona scuola conterrà anche il superamento del nido come "servizio a domanda individuale" e - si dice - anche una riduzione delle tariffe, obiettivi su cui il gruppo maternità&paternità si è impegnato da tempo. 

Nonostante questi passi avanti, dobbiamo prendere atto che le misure contenute nel decreto sono ancora troppo modeste. La scelta del governo di introdurre solo misure a costo zero (o quasi) non può che penalizzare una strategia di aiuti per i genitori che in questo paese continua a non riuscire a volare.


Il gruppo maternità&paternità ha elaborato nel tempo una serie di proposte per dare il via ad un percorso di unificazione in chiave universalistica e di riequilibrio del sistema di welfare che allarghi i diritti sociali e di cittadinanza a chi, senza distinzione tra donne e uomini, presta attività di cura. La descrizione delle sei proposte elaborate sin qui dal gruppo è disponibile online.

La legge delega 183 del 10 dicembre 2014 (c.d. Jobs Act) contiene dei “principi e criteri direttivi” che sembrano in parte andare nella stessa direzione delle analisi e delle proposte fatte dal nostro gruppo. Stupisce un po’ che, al momento, tra le misure in tema di “conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro” (così recita il Jobs Act ), si stia parlando solo a proposito di qualche ritocco marginale nel sistema di corresponsione dell’indennità di maternità.

In realtà noi riteniamo, come molte altre e altri, che il tema della conciliazione dovrebbe avere la stessa attenzione del contratto a tutele crescenti o della riforma degli ammortizzatori sociali, perché in Italia il doppio sì (al lavoro e alla maternità/paternità) è veramente difficile da realizzare, come dimostra anche la costante diminuzione del tasso di fecondità.

Per questo motivo, abbiamo evidenziato quattro suggerimenti che il Governo potrebbe adottare nell’attuare le linee guida prescritte dal Jobs Act: indennità universale di maternità, congedi parentali estesi ai padri autonomi, promozione degli orari ridotti e diritto al part time per i caregivers, uso degli incentivi alla contrattazione aziendale per promuovere misure di conciliazione delle aziende.

La ricognizione sulla copertura dell’indennità di maternità per le lavoratrici che si propone nel Jobs Act noi l’abbiamo già fatta. Ma ci preme che l’indennità sia data finalmente a tutte le madri.

L’articolo 9, lettera a) del Jobs Act fa riferimento  alla necessità di effettuare una “ricognizione  delle  categorie  di  lavoratrici  beneficiarie dell'indennità  di  maternità,  nella  prospettiva  di estendere, eventualmente anche in modo graduale, tale  prestazione  a  tutte  le categorie di donne lavoratrici”. 

Questa ricognizione noi l’abbiamo già effettuata e la possiamo mettere a disposizione del Governo. 

Di seguito, una ricognizione sulle lavoratrici beneficiarie dell’indennità.

Totalmente escluse dall'indennità

  • stagiste (in mancanza di controllo sono davvero molte...);
  • tirocinanti (che si stanno preparando all'abilitazione professionale da avvocato, commercialista, psicologo etc.);
  • autonome senza un adeguato pregresso contributivo;
  • inattive (studentesse o donne che svolgono compiti di cura familiare);
  • lavoratrici che hanno cessato l’attività da dipendente da più di 60 giorni (e non godono dell’indennità di disoccupazione) hanno diritto all’indennità di maternità solo se sono soddisfatti due requisiti: cessazione del rapporto da non più di 180 giorni e 26 contributi settimanali nell’ultimo biennio a favore della lavoratrice.

Ricevono indennità sotto la soglia del minimo proposto

  • molte lavoratrici iscritte alla gestione separata INPS (collaboratrici e professioniste), per le quali l’indennità (a differenza di quanto accade per commercianti, artigiane e professioniste iscritte ad ordini professionali) è ora calcolata proporzionalmente ai contributi versati;
  • donne che ricevono l'assegno dallo Stato, rivolto alle madri lavoratrici o ex-lavoratrici che non hanno diritto ad altri trattamenti di maternità;
  • donne che ricevono l'assegno erogato dall'INPS su segnalazione dei Comuni, rivolto alle madri che non hanno diritto né alle altre indennità di maternità né all'assegno statale.

In questo caso l’ammontare dell’indennità dovrebbe essere integrato.

Come si vede, alla fine l’indennità di maternità attualmente copre solo il lavoro dipendente (privato e pubblico) e una parte del lavoro autonomo tradizionale.  Ma non c’è copertura – o è molto ridotta - per tutte le “vie di mezzo” che pure caratterizzano l’attività di moltissime donne giovani in età di procreare: per chi studia (e ormai gli studi  prolungano, anche in mancanza di prospettive di lavoro), per le praticanti delle professioni ordiniste, per le stagiste (che ormai sono un esercito in imprese ed enti pubblici), per chi è in attesa di una occupazione, per chi fa magari da anni lavoretti precari e non ha maturato un ammontare sufficiente di contributi, per chi ha un lavoro “che diventerà presto regolare”. In certi casi si ha diritto a qualche forma di assegno ma solo se si è indigenti. Se sei senza lavoro da più di 60 giorni sei a rischio. Se sei una freelance iscritta alla gestione separata e hai un basso volume di lavoro, ti maturano contributi risibili. 

L’unica via di uscita a questa situazione frastagliatissima e iniqua è quella di pensare che le madri vadano aiutate “in quanto madri e non in quanto lavoratrici” e che ci sia per tutte, senza togliere a chi ha di più, una indennità minima universale. La proposta storica del nostro gruppo è quella di stabilire per tutte le madri un’indennità di 5 mensilità che non sia inferiore a 1,5 volte l’assegno sociale (che nel 2014 è pari a 447,61 euro), quindi ad oggi circa 670 euro

Cerchiamo di spiegare perché la proponiamo per tutte le madri e non solo per le donne che lavorano:

  • Innanzitutto, perché siamo a favore di un welfare universale, non più appoggiato ai capisaldi novecenteschi del “welfare per i lavoratori”, perché crediamo ad una cittadinanza universale e non solo ad una cittadinanza a cui si acceda tramite il lavoro retribuito, soprattutto perché crediamo che “lavoro sia molto di più” di quello che si scambia con un salario;
  • In secondo luogo, perché le madri potenziali sono in gran parte proprio quelle che non hanno copertura di maternità: le precarie, le studentesse, le ragazze in attesa di un lavoro, le stagiste.

Certo, questo non è un provvedimento a costo zero [1]. Però non è neanche troppo costoso [2], visto che l’arcipelago delle coperture già esistenti è comunque ampio, anche se la fascia che ne avrebbe più bisogno è proprio quella dove la copertura è bassa o nulla: in pratica l’Inps sta risparmiando perché le donne con regolare contratto di lavoro subordinato hanno un’età media sempre più al limite dell’età fertile, ma può un paese “lucrare” sul cambiamento della composizione del mercato del lavoro? E poi una indennità per tutte le madri avrebbe un grande valore simbolico in un paese in cui “fare un bambino non fa figo”, come raccontava pochi giorni fa su FB un ragazzo reduce da un Erasmus in Francia.

Un welfare universale deve tenere conto che moltissimi giovani genitori non sono nel lavoro dipendente.

I congedi parentali sono un’importantissima misura di conciliazione del lavoro con le esigenze di cura. A tutt’oggi però sono considerati tipici del lavoro dipendente. Tant’è vero che i papà autonomi sono esclusi dall’accesso a questo strumento di conciliazione e anche le mamme autonome possono accedervi sino ad un massimo di 3 mesi nel primo anno di vita del bambino. Nel mondo del lavoro autonomo e freelance sono concentrati attualmente moltissimi giovani madri e giovani padri e il fatto che un lavoratore autonomo possa disporre del proprio tempo più agevolmente di un lavoratore dipendente non toglie la necessità di un contributo al reddito per le ore spese per la cura [3]. Per questo, proponiamo di estendere all’ambito del lavoro autonomo, ad entrambi i genitori e con la stessa durata e le stesse regole (escluso l’obbligo all’astensione del lavoro) previste per i dipendenti, l’indennità di congedo.

 Il Governo potrebbe, inoltre, agevolare il part time per rompere finalmente l’orario standard, dare una mano ai  caregivers, consentire di articolare gli orari alle fasi della vita

Nonostante la sensibile crescita del part time (per lo più involontario) in alcuni settori, la scelta di un orario ridotto trova ancora molti ostacoli in Italia, quasi sempre per l’esitazione delle imprese che fanno fatica ad adattare la loro organizzazione e che devono fare i conti con una disciplina complicata.

Come gruppo maternità&paternità abbiamo sempre creduto di fondamentale importanza diffondere, come già in altri Paesi, l’uso di orari ridotti e articolati – su base giornaliera, settimanale, annua – in modo da favorire le possibilità di scelta dei lavoratori e delle lavoratrici e le loro strategie personali e familiari di vita (non solo necessariamente legate al prendersi cura dei familiari, ma anche alla formazione, al tempo per sé nella vita anziana).

Pensiamo che per diffondere orari di lavoro ridotti su base volontaria sia necessaria qualche forma di incentivo e per questo proponiamo di dare attuazione e diffusione a quanto è già previsto in una norma di quasi vent’anni fa, l’art. 13 del D. Lgs. 196/1997 (c.d. pacchetto Treu). Tale norma prevede la  rimodulazione delle aliquote contributive in relazione alle fasce di orario: sgravi contributivi per quelle al di sotto di un certo orario (ad esempio 32 ore settimanali) e viceversa degli aggravi al di sopra, restando quindi in media invariato il carico contributivo per un lavoratore full time. Questo sistema renderebbe più favorevole per aziende e lavoratori negoziare orari ridotti. Sarebbe ora di ritentare con più convinzione l’esperimento.

Anche la possibilità di utilizzo ad ore del congedo parentale, prevista dalla Direttiva europea e introdotta ormai da quasi due anni dalla riforma Fornero  - che avrebbe dovuto in pratica stabilire una specie di diritto al part time collegato al sistema del congedo parentale - si è rivelata un fallimento: da un lato le imprese hanno timore di un suo impatto difficile sulla pianificazione del lavoro (a volte già la fruizione a giornate ha creato problemi organizzativi) ma soprattutto l’Inps non è stato in grado di fornire indicazioni applicative per la mancanza di chiarezza della norma. A noi sembra che tale clausola (astrusa) possa essere sostituita da una norma un po’ più semplice e certa, sia per i lavoratori che per le aziende, che consenta ai genitori di usufruire di un orario ridotto fino ai tre anni del figlio/a, indennizzato, fino a concorrenza delle ore, tramite l’indennità prevista dal congedo parentale.

E perché non collegare gli incentivi previsti per la contrattazione aziendale alla introduzione di misure di conciliazione

Il sistema di incentivi alla contrattazione di salario aziendale collegati ad interventi di flessibilità per l’aumento della produttività (si veda il DCM del 22 gennaio 2013) è stato ben accolto dalle aziende. Secondo lo spirito del comma d), un sistema di incentivi di questo tipo potrebbe essere reintrodotto con un legame più forte e specifico alla conciliazione. Un’idea possibile è quella di applicare sgravi fiscali e/o contributivi ai premi variabili “solo” nel caso in cui siano introdotti all’interno di accordi aziendali che prevedano anche strumenti di conciliazione. Le forme di conciliazione possono essere orari a menù (schemi flessibili di orario a scelta del lavoratore), rimodulazione e riduzione degli orari, smartworking, ma anche indennità e altri benefit di welfare aziendale per la conciliazione. Tutte queste forme di flessibilità, se ben applicate, oltre che favorire la vita delle persone, possono portare buoni risultati alla produttività aziendale. Si tratta di convincere le imprese – ma anche il sindacato - che non sono gli straordinari quelli che migliorano la performance delle aziende ma orari articolati e ben organizzati in cui si incontrino le esigenze produttive e quelle dei lavoratori e soprattutto delle lavoratrici.


NOTE

[1] Il provvedimento potrebbe essere graduale (a partire dalle categorie di lavoratrici attualmente escluse e da stagiste e tirocinanti).

[2] Una stima del costo totale (comprese le inattive, l’abbiamo fatta nel 2009 per la Regione Lombardia)

[3] Nel lavoro autonomo, sia nel caso delle madri che dei padri, non si può stabilire un diritto al congedo in senso stretto, nel senso di un obbligo alla astensione del lavoro per un determinato periodo, ma solo un diritto all’indennità (così anche nella più recente interpretazione delle norme sulla maternità per le partite Iva).