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Le nuove regole della riforma Fornero sono frutto di una buona intenzione. Che però rischia di avere risultati mediocri, poiché resta ampio spazio per comportamenti furbeschi e abusi. Una guida ragionata alle nuove norme per tutelare la lavoratrice incinta

Dimissioni in bianco, una legge
a rischio furbetti

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Il 27 giugno scorso, ricorrendo ancora a 4 voti di fiducia, la camera ha approvato in via definitiva la legge di riforma del mercato del lavoro. In un pezzetto della legge (art. 4, commi 16-23) viene dettata una nuova disciplina delle dimissioni dei lavoratori. Il ministro del lavoro ha dunque mantenuto l’impegno di introdurre norme dirette a contrastare il diffuso illecito delle dimissioni in bianco (senza data, sottoscritte dal lavoratore al momento dell’assunzione o durante lo svolgimento del rapporto e “completate” poi dal datore di lavoro nel momento in cui decide di risolvere il contratto), di cui sono vittime soprattutto le lavoratrici; peccato che nella redazione delle norme parte di quell’impegno si sia in parte smarrito, avendo gli estensori perso di vista l’obiettivo fondamentale di una disciplina di contrasto alle dimissioni in bianco. L’obiettivo è (o dovrebbe essere) la garanzia che le dimissioni siano frutto di una libera scelta, la cui manifestazione avviene nel momento in cui la volontà si è effettivamente formata. Ma se il legislatore si preoccupa troppo di controbilanciare i limiti all’abuso, mettendo il datore di lavoro al riparo da eventuali comportamenti “furbeschi” del lavoratore, il risultato è quello di dettare una disciplina debole e non difficilmente aggirabile dal datore di lavoro, che per definizione è il più furbo dei due.

1. Le discipline delle dimissioni delle lavoratrici (maternità e causa di matrimonio)

La questione delle dimissioni in bianco non è certo nuova: già se ne discuteva all’inizio degli anni ’50 del secolo scorso, quando le dimissioni in bianco delle lavoratrici prendevano per lo più la forma delle “clausole di nubilato”. Il problema venne risolto con la legge n. 7/1963, che insieme alla nullità del licenziamento per causa di matrimonio sancì anche la nullità delle clausole di nubilato e delle dimissioni della lavoratrice nel periodo coperto dal divieto di licenziamento (dalle pubblicazioni del matrimonio ad un anno dopo la sua celebrazione), a meno che la lavoratrice non le confermasse entro un mese davanti all’Ufficio del lavoro (ora Direzione territoriale del lavoro). Queste regole sono e restano in vigore.

Una non dissimile disciplina delle dimissioni della lavoratrice era stata introdotta nella legge del 1971 sulla tutela delle lavoratrici madri, poi abrogata e confluita nel Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità del 2001, che aveva esteso al padre il regime della inefficacia delle dimissioni fino alla convalida del servizio ispettivo del ministero del lavoro competente per territorio. L’art. 55, comma 4, viene ora modificato, equiparando le dimissioni alla risoluzione consensuale e allungando a tre anni di vita del bambino il periodo “protetto”, nel quale l'efficacia delle dimissioni è condizionato alla convalida in sede amministrativa: ciò significa che le dimissioni non convalidate non hanno effetto e non fanno cessare il rapporto di lavoro.

Il legislatore però ha omesso di fissare un termine per la convalida, lasciando aperti i problemi interpretativi posti dalla disciplina precedente. Dunque, nel caso delle dimissioni della lavoratrice madre l’obiettivo del ministro di «tutelare l’interesse dell’impresa a non restare invischiata in un rapporto di lavoro che la lavoratrice stessa considera cessato, ma la cui cessazione, per inerzia, negligenza o altro, non rende operativa» (così la stessa Fornero nella lettera al Corriere della Sera del 5/5/2012), non viene realizzato. L’obiettivo è invece realizzato negli altri casi di dimissioni di cui dirò nei prossimi paragrafi, mediante la previsione di complesse procedure e termini brevi.

2. Gli altri casi di dimissioni delle lavoratrici e dei lavoratori

Al di fuori delle due ipotesi di cui ho detto sopra, tutti gli altri casi di dimissioni volontarie della lavoratrice e del lavoratore sono state sino ad ora regolate dal codice civile: il lavoratore può disporre (purché lo faccia liberamente) della sua libertà di recedere dal rapporto quando e come vuole, in forma anche orale e senza motivazione. Non deve essere confusa con questa libertà l’ipotesi, opposta, delle dimissioni “in bianco”, che ovviamente non sono volontarie, perché sottoscrivendo una lettera di dimissioni senza data il lavoratore consegna nelle mani del datore di lavoro il potere di licenziarlo arbitrariamente.

Le dimissioni in bianco sono nulle: ma per far valere la nullità il lavoratore deve fare causa al datore di lavoro e fornire al giudice la prova di quanto asserisce. Il problema è allora quello di prevenire gli abusi (molto frequenti nella pratica). Il legislatore ci aveva provato: prescrivendo la forma scritta delle dimissioni, su modulo on line, da cui risultava la data certa, grazie all’uso del codice alfanumerico e alla breve scadenza del modulo. La legge 17 ottobre 2007, n. 188, investita da molte critiche (alcune giuste, altre francamente ingenerose e strumentali), ha avuto una vita brevissima (entrata in funzione il 5 marzo del 2008, è stata abrogata nell’agosto dello stesso anno). Con l’abrogazione di questa legge, la disciplina delle dimissioni è tornata nell’alveo del codice civile: un alveo nel quale la pratica illecita delle dimissioni in bianco può prosperare incontrollata. Interviene ora la nuova disciplina, il cui intento, come ho detto, è quello di contrastare i licenziamenti arbitrari, mascherati da dimissioni o da risoluzioni consensuali.

Gli strumenti di contrasto sono due, in alternativa.

2.1. La convalida delle dimissioni

La prima alternativa consiste nell’estendere (con alcuni correttivi) il sistema della convalida. L’efficacia delle dimissioni della lavoratrice o del lavoratore e della risoluzione consensuale del rapporto viene infatti sospensivamente condizionata alla “convalida effettuata” presso la Direzione territoriale del lavoro o il Centro per l’impiego territorialmente competenti, ovvero presso le sedi individuate dai contratti collettivi nazionali stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale. Detto altrimenti: fino a che l’interessato non convalida (cioè “conferma”) in sede amministrativa o sindacale le sue dimissioni (o la risoluzione consensuale), il rapporto di lavoro non si risolve (dunque almeno giuridicamente continua a tutti gli effetti).

Ma, e qui sta il “controbilanciamento”, la convalida deve avvenire in tempi brevi (anzi eccessivamente brevi): il datore di lavoro, entro 30 giorni dalla data delle dimissioni o della risoluzione consensuale, deve invitare la lavoratrice/il lavoratore a presentarsi nelle sedi amministrativa o sindacale previste per la convalida; il termine è perentorio, nel senso che se il datore non lo rispetta, le dimissioni o la risoluzione consensuale non hanno effetto. La lavoratrice/il lavoratore ha solo 7 giorni di tempo (che decorrono dalla recezione dell’invito) per effettuare la convalida, o meglio per presentarsi nella sede amministrativa o sindacale competente. Decorso inutilmente tale termine, il rapporto di lavoro cessa definitivamente.

I termini decorrono dalla data delle dimissioni o della risoluzione consensuale. Questa data potrebbe anche essere stata apposta dal datore di lavoro su un foglio firmato in bianco: ma inutilmente, perché il lavoratore può rifiutarsi di convalidare, contestando l’autenticità delle dimissioni o del consenso alla risoluzione, e allora, dimissioni o risoluzione consensuale sono prive di effetto. In alternativa (probabilmente più semplice), il lavoratore, ancora nel breve termine di 7 giorni, può “revocare” (cioè contestare) le dimissioni o ritirare il consenso con apposita comunicazione scritta al datore di lavoro: una possibilità che si presenta solo ove non sia già stata effettuata la convalida (nel qual caso non c'è più possibilità di 'pentirsi'). La disciplina della revoca, mal formulata, suscita molti dubbi interpretativi (si veda la versione estesa di quest'articolo, nel pdf allegato).

2.2. La sottoscrizione “in calce”

La seconda alternativa presenta notevoli dubbi e apre a potenziali rischi di abuso. Si prevede che, in luogo della convalida, possa bastare la «sottoscrizione di apposita dichiarazione della lavoratrice o del lavoratore apposta in calce alla ricevuta di trasmissione della comunicazione di cessazione del rapporto di lavoro». Della ricevuta deve essere inviata copia al lavoratore, in allegato all’invito ad apporre in calce alla ricevuta la dichiarazione sottoscritta. I termini e le procedure per l’acquisizione della dichiarazione sottoscritta da parte della lavoratrice/lavoratore sono gli stessi già previsti per la convalida

La formula “in calce alla ricevuta” è generica (specie se si tiene conto che le comunicazioni agli Uffici avvengono per via telematica); peraltro la legge non dice che la ricevuta sottoscritta debba essere rinviata all’Ufficio competente, e nessun controllo amministrativo è previsto. Ma c’è di più: il lavoratore, solo di fronte al datore di lavoro che ha già comunicato la cessazione del rapporto di lavoro per dimissioni, privo dell’assistenza della pubblica amministrazione o del sindacato, è in grado di rifiutare di sottoscrivere la dichiarazione che gli viene richiesta?

Probabilmente consapevole della estrema debolezza di un siffatto meccanismo il legislatore ha previsto che il ministro del lavoro e delle politiche sociali possa individuare «ulteriori modalità semplificate per accertare la veridicità della data e la autenticità della manifestazione di volontà della lavoratrice o del lavoratore, in relazione alle dimissioni o alla risoluzione consensuale del rapporto, in funzione dello sviluppo dei sistemi informatici e della evoluzione della disciplina in materia di comunicazioni obbligatorie». Speriamo che il ministro provveda alla svelta: magari rimettendo in funzione i meccanismi (semplificati e aggiornati) previsti da quella legge n. 188/2007, che troppo in fretta il Ministro del precedente governo aveva provveduto ad abrogare.

In conclusione: una disciplina complicata e di difficile interpretazione. Sarebbe bastato molto meno per evitare gli abusi: generalizzare il sistema della convalida, contenendo le procedure in tempi ragionevolmente brevi.


In allegato, una versione più estesa di quest'articolo: MVB.Dimissioni.ingenere.pdf

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