Cosa significa femminismo, cosa significa essere femministe oggi. Lo abbiamo chiesto a Mariela Noles Cotito, attivista e docente di Scienze sociali e politiche a Lima, in Perù. "Sono cresciuta in una famiglia tradizionale, ma sono diventata quella voce che ricordava a mia madre che aveva il permesso di uscire dalla cucina" racconta
Per capire cosa significa essere femministe oggi abbiamo scelto di partire dal Perù, dove nuove voci si stanno affermando come portatrici di vissuti locali che possono avere un significato importante per tutte.
Ne parliamo con Mariela Noles Cotito, attivista e docente presso il Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche dell'Università del Pacifico a Lima, dove svolge anche ricerche su di diritti umani, interculturalità, uguaglianza di genere, politiche pubbliche per l'inclusione sociale delle minoranze etniche e sessuali e sistemi giudiziari latino-americani.
Dopo una laurea in Giurisprudenza presso la Pontificia Università Cattolica del Perù, Mariela Noles Cotito si è specializzata nella stessa disciplina presso l'Università della Pennsylvania, e ha poi ottenuto il titolo di "magister" in studi dell'America latina e scienze politiche presso l'Università della Florida meridionale. È stata direttrice dei progetti di sviluppo della Ong Makungu e ha collaborato con diverse istituzioni del movimento afro-peruviano. Ha fatto inoltre parte del gruppo tecnico della Direzione generale per l'uguaglianza di genere e la non-discriminazione del Ministero delle donne e delle popolazioni vulnerabili e della Direzione delle politiche per la popolazione afro-peruviana del Ministero di cultura, ed è stata coordinatrice di tutti i temi di diversità e inclusione presso l'ufficio Donne e uguaglianza del Comune metropolitano di Lima.
Come descriveresti il femminismo in Perù?
Parlare di femminismo in Perù, come credo – e mi piace pensare – in tutti i paesi del mondo, dipende dal punto di partenza di ognuna. Non possiamo quindi parlare di femminismo, ma dovremmo piuttosto menzionare "i femminismi". Pensiamo alle prime fasi del movimento, quelle dedicate all'uguaglianza giuridica: le donne nere, razzializzate, erano quelle che rimanevano nelle case di altre donne che uscivano a manifestare per i propri diritti – prettamente connessi alla loro classe sociale: donne con accesso all'istruzione, donne che sapevano firmare, donne con dei privilegi. Ecco, credo che il femminismo peruviano mainstream mantenga in questo una linea diretta, eredità del femminismo bianco e borghese, escludendo o dando poca visibilità ad alcuni temi all'interno dell'agenda centrale.
A quali temi ti riferisci nello specifico.
L'agenda femminista peruviana nazionale non si caratterizza per essere antirazzista o anticoloniale. Così come non è antiomofoba o antitransfobica; tende inoltre a essere abilista (ad avere, cioè, un atteggiamento discriminatorio e svalutativo verso le persone con disabilità, ndr). Si sta lavorando ad agende che nascano dalla differenza, ma, se pensiamo alle grandi organizzazioni che rappresentano l'afro-peruanismo, notiamo che in passato l'unico argomento legato al femminismo riguardava i diritti sessuali e riproduttivi. Da qualche anno, però, si assiste a un incremento, di presenza e di parola, da parte delle femministe afro-peruviane e intersezionali in generale. Oggi l'agenda esiste ed esiste la volontà di affermarsi femministe.
Cosa significa per te oggi definirsi femminista?
Definirsi femminista ha un costo sociale; è una sfida, perché è un termine sufficientemente ambiguo, tanto da generare confusione. Un settore molto grande della popolazione lo associa a un concetto di antagonismo nei confronti degli uomini; chiaramente non è così, ma anche all'interno dei gruppi di persone che si definiscono femministe esistono molte discordanze, perché i punti di vista non sono sempre coincidenti. Il libro Cattiva femminista di Roxane Gay aiuta a cogliere le molteplicità delle pratiche femministe: c'è chi è più aggressiva ed esplicita, chi fa del femminismo una pratica costante o, ancora, chi preferisce teorizzarlo. Le differenze sono tali che si può arrivare a un punto di rottura, seguito da un giudizio inflessibile: perché il giorno che ti sbaglierai, il giorno in cui la pratica vacillerà, sarà il giorno nel quale verrai penalizzata e screditata.
Pensi che in Perù ci siano femministe o femminismi più criticati di altri?
Credo che la critica impatti l'attivismo in generale: laddove il "personale è politico", esiste anche una rigidità sociale rispetto alle scelte di vita personali. Non credo sia un fatto negativo, ma l'inflessibilità regala forti strumenti di calunnia "al nemico".
Puoi farci qualche esempio?
Alcune congressiste peruviane sono femministe, ma questo non significa che siano disposte a farsi carico di tutte le situazioni o di tutti gli attacchi che subiscono, in qualche modo, le congressiste dell'opposizione. A questo punto il soggetto egemonico utilizza le nostre stesse armi per squalificare le nostre proposte: "sei femminista e non difendi tutte le donne? Allora il femminismo è un fuoco di paglia" gridano a gran voce.
Parlando di "femminismi", come si teorizza il femminismo in Perù? In particolare il femminismo afrodiscendente o indigeno.
In Perù il femminismo non si caratterizza per l'innovazione accademica. Sì, sono molte le femministe che hanno scritto saggi in merito, anche se generalmente vengono pubblicati negli Stati Uniti. Va detto che un articolo non crea una teoria, però sono ormai diverse le voci latino-americane che stanno riuscendo a emergere e impattare sul sistema. Per citarne alcune: Yuderkys Espinoza, Ochy Curiel, Sueli Carneiro, Maria Lugones, Silvia Rivera Cusicanqui. Voci che si avvalgono di un tipo di apprendimento situato, incorporando, cioè, esperienze del proprio vissuto, della propria genealogia. Siamo sempre state oggetto e soggetto di studio di altri; oggi alimentiamo la teoria con le nostre testimonianze.
Questo che significato assume a livello accademico?
Significa che in accademia verranno accettate, e già si sta verificando, nuove forme di scrittura, in particolare riguardo alle citazioni. È un processo lento, ma intanto si sta generando.
Cosa sta succedendo invece nelle piazze?
Il fenomeno è interessante perché queste donne, che sono sì delle accademiche, stanno scrivendo, teorizzando, senza mai perdere di vista "la calle" (la strada) e mettendosi in gioco a livello intimo ed emotivo. Si sta sovvertendo il giudizio del soggetto universale – bianco, proprietario, eterosessuale – a favore di un nuovo luogo di enunciazione, il nostro, il "da dove".
Parlando di "dove", esistono luoghi, fisici o virtuali, nei quali vi state incontrando?
Penso che si potrebbe (e dovrebbe) fare di più, ma almeno per quanto riguarda le coalizioni accademiche di scienze sociali, laddove prima si parlava di "epistemologia del Sud" oggi si parla di femminismo nero, latino-americano, indigeno. Insomma, veniamo riconosciute.
Il femminismo di carattere nazionale quando entra nel discorso? È importante?
A questa domanda rispondo da un punto di vista mio, personale. Credo che tutte le lotte sociali siano connesse, dovremmo quindi creare sinergie, ma è anche vero che la maggior parte dei movimenti sociali, che rispondo a una oppressione, operano dalla scarsità. Ovvero dall'idea che, se hai già ottenuto dello spazio, tutto quello che ti prenderai da oggi in poi toglierà qualcosa a me, alla mia visibilità. Affinché ci si possa prendere sotto braccio e avanzare con più forza, si dovrebbero verificare due condizioni: la prima, che il femminismo bianco e borghese riconosca il suo passato razzista. La seconda, che le femministe nere siano disposte a confidare nelle altre. La verità è che non siamo ancora pronte e lo stesso si verifica con altri movimenti sociali.
Varrebbe la pena pensare, forse ingenuamente, di partire dal nostro privilegio per ripensare i femminismi...
C’è mancanza di pensiero strategico, questo è certo, ma dobbiamo anche pensare che esiste una profonda "ferita", luogo dal quale ci muoviamo. Un esempio: ho partecipato a un convegno sull'afrodiscendenza organizzato a New York, dove c'erano persone provenienti da ogni parte della terra. Il moderatore, iniziando, ha detto: "rispettiamo la vostra ferita, ma oggi siete qui, davanti ai rappresentanti dei paesi dominanti, per fare delle richieste, raccomandazioni concrete e specifiche". Sono state poche le persone che hanno seguito le raccomandazioni: questi spazi servono ad andare oltre al dolore e iniziare a costruire dinamiche di guarigione, ma trascendere la ferita risulta essere ancora molto complesso.
Che soluzioni vedi in questo processo da qui al prossimo futuro.
Penso che sarebbe utile creare alleanze ma, di nuovo, sono azioni che richiedono un alto livello di fiducia – devo essere sicura che non sfrutterai le mie conoscenze, che sarai sincera nel riconoscere i tuoi privilegi. Queste dinamiche sono fattibili a livello micro, ma molto complesse da articolare a un livello di massa. D'altronde, il femminismo nazionale non sembra troppo interessato a tessere un dialogo più approfondito.
Partendo dalla consapevolezza che esistono "i femminismi", è possibile secondo te pensare a un'unione femminista latino-americana?
I livelli di cooperazione si stanno tessendo non a livello nazionale, ma piuttosto tra femminismi complementari a livello transnazionale. Credo che si creeranno sempre di più gruppi tematici: femminismo nero latino-americano, femminismo indigeno latino-americano, ad esempio.
A livello politico come sta avanzando il Perù sulle tematiche di genere?
Le leggi ci sono, ma spesso ce le ricordiamo in seguito ad avvenimenti gravi. La società però non avanza di pari passo con i regolamenti: basti pensare che, secondo l'istituto di ricerca nazionale, sono molte le persone che dichiarano di essere d'accordo con la violenza economica o con qualche tipo di castigo a discapito delle donne. Anche la discriminazione è un reato, però la pena è irrisoria. Dovremmo essere più criminalisti? Già sappiamo che una pena maggiore non disincentiva il delitto, perché come società non abbiamo abbastanza elementi per identificare che lo stiamo effettivamente commettendo. Lo stesso nel caso della violenza sulle donne e di genere: è talmente normalizzata che molte persone non la considerano come un atto lesivo, non la riconoscono.
Ora tocca a te, come ti sei avvicinata al femminismo?
Sono cresciuta in una famiglia tradizionale, ma sono diventata quella voce che ricordava a mia madre che aveva il permesso di uscire dalla cucina e a mio padre che era in possesso di due braccia. Li amo molto, ma osservando quella dinamica ho capito fin da bambina che non volevo quella vita. Ho studiato legge e, grazie a un corso di diritto con una prospettiva di genere, mi sono avvicinata al tema, diventando una divoratrice di libri e iniziando a mettere in dubbio le dinamiche di vita che avevo appreso, questa volta in maniera più attiva. Ho svolto un master in critica del diritto, avvicinandomi sempre più al femminismo e proiettandolo nel mio lavoro accademico. Non c'era allora un'organizzazione, un collettivo nel quale sentirmi identificata.
Come si declina il femminismo nella tua vita di tutti i giorni?
Ci sono molte forme, molte pratiche femministe e sono il riflesso delle tue scelte di vita. Per quanto mi riguarda, si concentrano sul mio lavoro e, in particolare, sul risultato del mio lavoro. Ho lavorato per il Ministero delle donne, regionale e nazionale, e oggi mi dedico principalmente all'insegnamento, portando in aula voci che parlando dei diritti di donne e dissidenza, diritti Lgbtq+ e di persone con disabilità.