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Aumento crescente delle assunzioni a termine e una concorrenza al ribasso che ha visto sempre più giovani occupare posti dequalificati rispetto al livello di istruzione raggiunto. Come ha funzionato la ripresa nel mercato degli ultimi dieci anni

Il mercato
della ripresa

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Foto: Unsplash/ Annie Spratt

Il decennio 2008-2018 si caratterizza per una profonda e lunga recessione, seguita a partire dal 2014 da una debole ripresa economica. I recenti rapporti pubblicati da Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro (Cnel) e dall’Istituto nazionale di statistica (Istat) sul mercato del lavoro, pur differenziandosi per impostazione e scelta dei temi oggetto di approfondimento, evidenziano importanti cambiamenti.

In primo luogo, il decennio è stato interessato da una profonda trasformazione del tessuto produttivo, che si è tradotta in una accentuazione di alcune debolezze strutturali dell’economia italiana. Nell’introduzione al rapporto Cnel, Tiziano Treu scrive: “Ormai da parecchi anni (essa) non vede crescere quei settori e quelle attività ad elevata produttività e alto valore aggiunto che soli sarebbero in grado di offrire posti di lavoro molto qualificati e a tempo pieno”.

In secondo luogo, come ben evidenziato nell’articolo di Mara Gasbarrone, le modifiche nella struttura produttiva durante il decennio, hanno portato a una ricomposizione dell’occupazione verso il lavoro dipendente e a un miglioramento dei livelli quantitativi dell’occupazione, misurati in termini di numero di persone inserite nel mercato del lavoro, rispetto agli anni di recessione. Ma si osserva anche un preoccupante peggioramento della qualità dell’occupazione in base alle ore lavorate, con un aumento della quota di part-time involontario e la persistenza dell’incapacità del sistema produttivo di assorbire una quota molto elevata di forza lavoro disponibile, con una grave penalizzazione per la componente femminile.[1] 

In terzo luogo, infatti, come accennato sopra, molti dei contributi presentati nei due rapporti mettono in evidenza un generale peggioramento della qualità dell’occupazione. Ciò è colto da molteplici indicatori: il numero di ore lavorate e l’incidenza del part-time involontario, ancora molto elevata tra le donne, la mancata stabilità dei rapporti di lavoro e le insufficienti prospettive di carriera per i giovani, i bassi livelli salariali e la crescita del lavoro povero e più in generale tutti quegli elementi che concorrono a determinare il grado di soddisfazione del lavoratore. 

L’incapacità dell’economia italiana di generare lavori di buona qualità si riflette nella crescente polarizzazione dell’occupazione: le fasce più qualificate dei lavori crescono meno di quelle poco qualificate. Questo fenomeno è colto dall’analisi della domanda di lavoro delle imprese (con almeno 10 dipendenti) e dal disallineamento formativo. Il fenomeno del disallineamento formativo ha interessato un po’ più della metà delle assunzioni delle imprese nel triennio 2014-2016, ma con una maggiore diffusione del fenomeno della sovraistruzione rispetto alla sottoistruzione, soprattutto tra i giovani al di sotto dei 30 anni, interessando – rispettivamente – il 34,3% e il 18,3% nel triennio. 

Queste tendenze sono interpretate nel rapporto Istat come il risultato di due fenomeni: da un lato, “il permanere della scarsa vivacità di domanda di lavoro qualificato da parte delle imprese, dall’altro l’aumento del flusso in entrata dei più istruiti nel mercato del lavoro”. Queste due tendenze, in atto ormai da tempo nell’economia italiana, si traducono in una penalizzazione per le nuove generazioni, che entrano nel mercato del lavoro con livelli d’istruzione via via crescenti.  Ovvero, l’aumento del flusso in entrata nel mercato del lavoro dei più istruiti (tra l’altro, più marcato tra le giovani donne rispetto ai giovani uomini) rischia di tradursi in una concorrenza al ribasso, con i laureati che occupano i posti dei diplomati, e questi le professioni a più bassa qualifica.   

Gli ultimi quattro anni sono caratterizzati da una ripresa economica, seppur debole, e da importanti modifiche normative nella regolazione del mercato del lavoro, che hanno portato a un aumento significativo del lavoro a termine. Questo aumento è così elevato che nel rapporto Cnel gli viene dedicato un capitolo, intitolato L’esplosione del lavoro a termine. I dati riportati nella tabella 1 mostrano come l’aumento del lavoro a termine tra i lavoratori dipendenti sia stato trasversale: ha interessato sia gli uomini che le donne, tutte le aree geografiche, tutte le classi di età ed anche i diversi livelli d’istruzione. Più precisamente, tra il 2014 e il 2018, l’incidenza del lavoro a termine sull’occupazione totale è aumentata per tutti i gruppi considerati (sesso, area geografica, età, titolo di studio). Rimane confermata una maggiore incidenza tra le donne rispetto agli uomini, nel Sud rispetto al Centro-Nord, tra i meno scolarizzati rispetto a diplomati e laureati, e soprattutto tra i giovani al di sotto dei 30 anni, rispetto alle altre classi di età. 

Tabella 1. Lavoratori dipendenti con un contratto a termine per sesso, area geografica, classe di età e livello di istruzione, 2014 e 2018

 

Fonte: Microdati Istat (RCFL), dipendenti 15-64 anni, migliaia (in: Barbini e De Novellis, in Cnel 2019, p. 49).

Questa ulteriore diffusione del lavoro a termine negli anni della ripresa economica trova conferma nei dati sulla 'prima attivazione di un rapporto di lavoro' per tipologia contrattuale. La figura 1 mostra che negli anni 2010-2017 si rafforza la scelta delle imprese di procedere all’assunzione di personale attraverso l’utilizzo di contratti a termine (a tempo determinato o altro temporaneo). Nel 2017, solo il 23,4% delle nuove assunzioni avviene con un contratto di lavoro permanente. La quota di assunzioni con contratti di lavoro permanenti, già bassa nei primi anni del decennio, si riduce ulteriormente, dopo il forte aumento del 2015 (dovuto agli effetti dei provvedimenti sulla contribuzione, L. 190/2014).  Il contratto a tempo determinato continua pertanto a rappresentare la principale modalità di assunzione. Ciò è vero per tutte le classi di età, anche se è relativamente meno presente nelle fasce di età centrali. 

Figura 1. Individui alla prima attivazione di un rapporto di lavoro nell’anno, per tipologia contrattuale, 2010-2017 (valori %)

Nota: il lavoro permanente comprende i contratti a tempo indeterminato e l’apprendistato; la voce residuale ‘altro temporaneo’ comprende i contratti di collaborazione, il lavoro nello spettacolo e tutti i rimanenti contratti a termine. Fonte: Calvitto e Nazzarro (2019, p. 69).

I dati di fonte amministrativa elaborati nel capitolo 5 del rapporto Istat permettono di seguire i lavoratori assunti in un certo anno per calcolare: il tasso di permanenza nell’occupazione a distanza di tempo (a 12, 24, 36 mesi di distanza); il tasso di stabilizzazione dei lavoratori 'precari', più precisamente il tasso di transizione dei lavoratori assunti con contratti a termine verso contratti permanenti. 

Il tasso di permanenza nell’occupazione misura la probabilità di essere occupati a distanza di un certo intervallo di tempo rispetto alla prima attivazione. In generale, il miglioramento nelle condizioni economiche generali si riflette in un aumento dell’indicatore per tutti i gruppi di lavoratori considerati. Va tuttavia osservato che questo miglioramento è modesto: il tasso di permanenza nell’occupazione calcolato a 36 mesi dall’assunzione è pari al 64,4% per la coorte del 2014, rispetto al 57,3% per la coorte del 2010. 

Per la coorte con una nuova assunzione nel 2014, non si osservano differenze rilevanti tra uomini e donne nel tasso di permanenza a 36 mesi dalla prima attivazione: 64,5% e 64,1%, rispettivamente. Sono invece marcate le differenze per area geografica (con una forte penalizzazione del Mezzogiorno) e per cittadinanza (con una forte penalizzazione per gli stranieri). Per gli individui assunti inizialmente con un contratto di lavoro permanente, il tasso di permanenza nell’occupazione è decisamente molto più elevato rispetto ai lavoratori assunti con contratto di lavoro temporaneo: 73,1% e 60,7%, rispettivamente. 

Il tasso di transizione verso il lavoro permanente riporta la percentuale di lavoratori che sono passati da un contratto temporaneo in ingresso a uno permanente nei successivi mesi. Per entrambe le coorti, quella del 2010 e quella del 2014, la percentuale di transizione tende a crescere nel tempo, ma si assesta a distanza di 36 mesi su livelli modesti, attorno al 22-26% (figura 2A). La percentuale di transizioni verso contratti permanenti risulta un po’ più alta per i maschi rispetto alle femmine, ma con una tendenziale riduzione del divario nel medio-lungo termine (figura 2B). Le donne presenterebbero uno svantaggio maggiore in termini di probabilità di stabilizzazione, nel senso che impiegano più tempo per raggiungere tassi di stabilizzazione comunque bassi.

I risultati qui sintetizzati confermano un fatto noto: per una quota elevata di persone che trovano lavoro con contratti a termine, questi costituiscono una trappola in una vita lavorativa discontinua e precaria, invece di essere un trampolino verso la stabilità occupazionale.

Figura 2. Transizione dei lavoratori verso contratti permanenti per numero di mesi dall’ingresso nell’occupazione con contratti temporanei. Coorti 2010 e 2014 (valori percentuali)

 

Fonte: Calvitto e Nazzarro (2019, p. 75)

 

Riferimenti bibliografici

Barbini, Marina, e Fedele De Novellis, “L’esplosione del lavoro a termine”. In: Cnel (2019), (pp. 47-59)

Calvitto, Libero, e Oreste Nazzaro, “Analisi dei flussi dei lavoratori: percorsi e sviluppi lavorativi”. In Istat (2019), (pp. 65-75)

Cnel (2019), XX Rapporto mercato del lavoro e contrattazione collettiva 2017-18, Roma

Istat (2019), Il mercato del lavoro 2018. Verso una lettura integrata, Roma. 

Note

[1] Si veda il paragrafo “Il sottoutilizzo del lavoro in Italia”, in Istat 2019, Cap. 2.

 

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