Dati

Si dice "il soffitto di cristallo", per indicare il blocco alle carriere femminili. Ma un'analisi dei numeri italiani induce a fare le dovute distinzioni, a seconda di chi è il datore di lavoro. Il pubblico impiego è più paritario e vede una maggior presenza di donne qualificate. Perché nel nostro privato si butta via tanto capitale umano?

Pubblico vs privato: non tutte
sotto lo stesso tetto

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Non è una novità che le donne italiane siano ben rappresentate nel pubblico impiego, ma non c’è altrettanta consapevolezza di quali siano le proporzioni e le implicazioni del fenomeno. Per inquadrarlo nella sua dimensione europea, va innanzitutto detto che ciò che vale per il nostro paese vale anche nel resto dell’Unione, salvo che i numeri sono diversi. Secondo uno studio pubblicato di recente, nell’Europa a 15 dei primi anni del duemila il settore pubblico assorbiva una quota di occupazione complessiva (maschi e e femmine) superiore alla media in quei paesi che vantavano un tasso di occupazione femminile anch’esso superiore alla media. Viceversa, in Italia e in altri paesi mediterranei tassi di occupazione femminile più bassi facevano il paio con un peso occupazionale del pubblico inferiore alla media1. Lo stesso studio documenta per le donne del nostro paese una relazione forte e positiva tra alti livelli di scolarizzazione e probabilità di trovare un lavoro e di fare carriera nel settore pubblico.

Doveroso dunque appare, a nostro avviso, analizzare le caratteristiche della presenza femminile in ambito lavorativo dando particolare rilevo alle differenze che si osservano tra settore pubblico e privato, anche in termini di investimento in capitale umano2. La composizione dei lavoratori del pubblico impiego è piuttosto equamente distribuita per genere: nel 2010 erano donne il 53% dei lavoratori del pubblico impiego (età 18-64 anni). È interessante mettere in evidenziare due ulteriori dati: ci sono ben 59 donne ogni 100 occupati nel pubblico impiego in professioni altamente qualificate3, a significare una prevalenza femminile nelle professioni high skill; la percentuale di donne occupate in professioni high skill rispetto al totale delle donne impiegate nel pubblico è superiore alla stessa percentuale calcolata per gli uomini (33% contro 26%), il che mostra un maggior contenuto di capitale umano della componente femminile. Se l’analisi viene condotta suddividendo la popolazione in base all’età si osserva che le donne giovani più frequentemente degli uomini lavorano nel pubblico, la quota si mantiene sopra al 50% per le under 44 e scende sotto al 50% per le over 45. Per tutte le fasce d’età considerate, inoltre, la componente femminile ha un’incidenza in professioni ad alta qualificazione superiore a quella maschile, fanno eccezione solo le coorti over 55 dove la percentuale di donne in queste professioni, rispetto alla totalità delle donne occupate, è minore che per gli uomini. Il quadro appena tracciato ci indica quindi che tra i lavoratori del pubblico impiego la probabilità di incontrare una donna è più alta rispetto a quella di incontrare un uomo, e che tale relazione rimane invariata anche se si considerano gli occupati impiegati in professioni high skill.

Le cause di ciò sono presumibilmente associabili alle modalità di accesso al lavoro pubblico: probabilmente lo strumento del concorso facilita le assunzioni delle donne anche in posti ad alta qualificazione, fenomeno che a sua volta può essere spiegato sia in base a una più alta formazione delle donne più giovani, rispetto agli uomini, che per un maggiore interesse femminile verso questo settore quale datore di lavoro. In altre parole, la componente femminile dell’occupazione sembrerebbe non essere penalizzata nelle possibilità di fare carriera nel pubblico impiego.

 

Occupati di 18-64 anni per genere, classi d'età e settore di attività economica. Anno 2010

(% donne su uomini; % in professioni high skill)

 

Fonte: nostre elaborazioni su dati Isfol - Plus 2010

 

Passiamo invece a vedere cosa succede nel settore privato, che come noto racchiude la maggior parte dei lavoratori italiani. Qui la situazione muta drasticamente. La composizione per genere cambia e le donne che lavorano nel settore privato risultano essere la minoranza: sono il 36%, sull'intera fascia 18-64 anni, e non superano mai la componente maschile neanche se le percentuali sono calcolate per classi d’età (la quota massima, pari al 42%, si registra per le lavoratrici di 35-44 anni). Poche donne raggiungono i vertici e, guardando all’età, in nessun caso superano la quota di uomini in professioni high skill. Inoltre e specularmente, nel privato le donne risultano più concentrate in lavori non qualificati: se tra gli uomini il 5% ricopre mansioni low skilled per le donne tale quota è più del doppio. Da tali analisi emerge la ridotta capacità del settore privato di attrarre (o trattenere) persone altamente qualificate, soprattutto se donne, e contestualmente la maggior inclinazione ad assumere donne meno qualificate.

Ne viene fuori che per le donne, guardando alla realtà dei numeri e nonostante le ridotte possibilità, risulterebbe comunque più conveniente impegnarsi a vincere un concorso pubblico piuttosto che applicarsi per entrare nel settore privato, dove la strada per posizioni professionali elevate sembra quasi sbarrata. Un glass cieling4 concentrato soprattutto nel settore privato, caratterizzato in Italia, com'è noto, dalla predominanza delle piccole imprese.

 

Se aggiungiamo al quadro sin qui delineato la dimensione dell’investimento in istruzione, affiora una situazione per alcuni versi paradossale. Nel settore pubblico, fatto 100 il totale degli occupati con almeno una laurea si osserva, per qualsiasi gruppo professionale, una netta prevalenza di donne (il 61% degli occupati con titolo universitario in professioni high skill sono donne, nelle professioni “tecniche o medie” la percentuale sale addirittura al 77%), mentre nel settore privato la quota di donne laureate, rispetto a tutti gli occupati laureati, è nettamente inferiore (36% nelle professioni high skill e 46% in quelle “tecniche o medie”). Emerge tuttavia chiaramente anche un altro dato: le donne con una maggior qualificazione (elevati livelli di scolarizzazione) vanno ad inserirsi tra gli occupati in misura maggiore che gli uomini. Si registra, infatti, che tra tutte le donne impiegate nel settore pubblico ben il 37% ha un titolo di studio terziario (per la componente maschile questo valore è pari al 23%), mentre nel settore privato la quota si riduce al 15%, restando comunque superiore alla medesima percentuale calcolata per gli uomini (12%). In generale appare sconfortante verificare come in Italia, paese già caratterizzato da una ridotta quota di persone con titoli di studio universitari5, il settore privato non riesca ad assorbire a sufficienza e a valorizzare l’investimento in capitale umano degli individui.

L’analisi dell’incidenza degli occupati con alle spalle studi universitari per gruppi professionali fa quindi emergere da un lato che il settore pubblico, rispetto al privato, sembra avvalersi di forza lavoro mediamente più istruita in ogni gruppo professionale; dall’altro la costante maggior qualificazione della componente femminile che tuttavia risente maggiormente di problemi di corretta allocazione nelle professioni: la percentuale di donne con almeno una laurea, sul totale delle donne, è sempre maggiore di quella degli uomini qualsiasi sia il gruppo professionale esaminato ma, la quota di uomini con istruzione terziaria che lavora in professioni high skill è sempre superiore rispetto alle donne.

Occupati di 18-64 anni laureati per genere, gruppo professionale e settore di attività economica. Anno 2010 (% sul totale degli occupati dello stesso sesso, gruppo professionale e settore)

 

Fonte: nostre elaborazioni su dati Isfol - Plus 2010

 

Se il privato spesso invoca il merito come criterio guida, il messaggio che ne esce sembra andare in direzione opposta. Se le laureate fanno almeno altrettanto bene quanto i laureati, non è forse nell’interesse dell’impresa avere un’adeguata composizione di genere in ogni posizione professionale? Come può la dispersione di questa forza lavoro con alle spalle un cospicuo investimento in capitale umano essere accettata anche seguendo una unica e ferrea logica di profitto? Forse la discrezionalità privata spesso si scontra con stereotipi di genere che frequentemente associano aprioristicamente una minore produttività alla donna che lavora? Probabilmente uno studio dei meccanismi che governano le best practices e come queste possano essere applicato ad ogni realtà di impresa può aiutarci nel capire dove si fermino le competenze e le abilità e dove cominci il glass celing. Forse il pubblico può essere di esempio, e non sarebbe la prima volta.

Note 

1 Solera C. e Bettio F. (2013), Women’s Continuous Careers in Italy: The Education and Public Sector Divide, Population Review Volume 52, pp.129-148, , Number 1, 2013

2 La banca dati utilizzata per le analisi di seguito presentate proviene dall’indagine Isfol-Plus 2010. La scelta di tale fonte dati, la cui ultimo diffusione si riferisce a dati rilevati nel 2010, è conseguenza delle informazioni in essa contenute. L’indagine, infatti, rileva informazioni sulla forma giuridica dell’ente nel quale si lavora, oltre a rilevare tutte le informazioni sulle caratteristiche del lavoro e demografiche della persona intervistata. Per maggiori dettagli si rimanda a http://sbnlo2.cilea.it/bw5ne2/opac.aspx?WEB=ISFL&IDS=18957

3 Persone occupate in professioni 1 e 2 nella classificazione Isco 88.

5 L’Istat, tramite la rilevazione continua delle Forze Lavoro, stima che nel 2010 il 14.8% della popolazione di 25-64 anni è in possesso di un titolo universitario, tale incidenza sale a circa il 18% se si considera la sola popolazione occupata.