Raggiungere il più alto livello di istruzione è un buon investimento per tutti, uomini e donne, almeno per trovare lavoro. Diverso il discorso quando si vanno a guardare le retribuzioni: a parità di dottorato il reddito da lavoro delle donne è inferiore a quello degli uomini di 5.000 euro all’anno. Uno studio spiega cosa determina questa differenza
Quanto "rende"
fare il dottorato
Più si investe nella propria istruzione, maggiori sono le possibilità di trovare un impiego e retribuzioni più elevate, cosa che allo stesso tempo può incidere sulla riduzione delle disparità di genere nei luoghi di lavoro. Queste relazioni si osservano anche in Italia, ma in modo meno evidente: nel nostro Paese i premi associati all’investimento in istruzione - sia in termini occupazionali che retributivi - sono meno significativi e i differenziali di genere persistono anche per le persone con livelli di scolarizzazione molto alti.
Nel 2012 l’Isfol ha condotto un’indagine [1] sulle persone che hanno conseguito il titolo di dottore di ricerca nel 2006, con l’obiettivo di stimare il fenomeno della mobilità territoriale delle persone ad elevato investimento in capitale umano. Ed è stato osservato che le persone con un dottorato di ricerca hanno una posizione di vantaggio sul mercato del lavoro rispetto al resto della popolazione, soprattutto in termini di partecipazione, ma anche in considerazione dei livelli retributivi. Emerge tuttavia un forte peso dell’appartenenza di genere nella determinazione dei redditi da lavoro su cui è opportuno un approfondimento.
A far da sfondo alle analisi che seguono vi è l’idea che le differenze di genere in termini occupazionali e retributivi che si osservano per gli individui a ridotto investimento in capitale umano dovrebbero riguardare in misura minore i dottori di ricerca e che le variabili che spiegano le disomogeneità dei livelli retributivi per uomini e donne (anche se entrambi con elevati titoli di studio) non necessariamente coincidono.
Dall’Indagine Isfol emerge una situazione in termini occupazionali oltremodo positiva, con contenute differenze di genere: nel 2012, a circa sei anni dal conseguimento del titolo il 92,5% è occupato (con uno scarto a svantaggio delle donne di 3,2 punti percentuali), l’inattività riguarda solo il 5,4% (con uno scarto a svantaggio delle donne di 2 punti percentuali) e il tasso di disoccupazione si attesta al 2,1%. Condizioni decisamente migliori rispetto a quelle generalmente riscontrate tra la popolazione italiana.
Le differenze di genere appaiono abbastanza marcate, invece, quando si osservano le retribuzioni: il reddito da lavoro per le donne è inferiore a quello degli uomini di quasi 5.000 euro in media all’anno (fig. 1). L’osservazione dell’intera distribuzione dei redditi per uomini e donne, inoltre, mostra quote maggiori di uomini nelle fasce di reddito superiori e, al contrario, quote maggiori di donne nelle fasce di reddito inferiori. Le analisi multivariate [2] mostrano che tra i dottori di ricerca le donne, a parità di altre condizioni (luogo di residenza, tipologia familiare, caratteristiche del percorso formativo, tipo di contratto di lavoro, professione, ecc.), percepiscono redditi inferiori agli uomini, con uno svantaggio medio stimato intorno al 20% [3]. L’elevato investimento in capitale umano non sembra dunque in grado di proteggere le donne dal permanere di differenziali retributivi.
In considerazione di queste evidenze si è ritenuto opportuno approfondire l’analisi per comprendere quali siano le variabili che principalmente intervengono e con quale intensità agiscano sulla determinazione dei redditi femminili, nel raffronto con le determinanti dei redditi maschili [4] (fig. 2) .
Fig. 1: Dottori di ricerca del 2006 occupati per classi di reddito netto annuo da lavoro e genere, Anno 2012
Sull'asse delle ascisse il range delle retribuzioni annue lorde. Nota: i redditi si riferiscono al 2011: sono compresi tutti i redditi da lavoro dipendente e autonomo. Fonte: elaborazioni su dati Isfol, Indagine sulla mobilità geografica dei dottori di ricerca, anno 2012
I dottori di ricerca che hanno intrapreso processi di mobilità geografica [5] (sia in Italia che all’estero) hanno redditi più elevati di coloro che sono rimasti nel luogo dove hanno conseguito il dottorato (o dove hanno vissuto prevalentemente fino alla maggiore età). Le caratteristiche del vantaggio retributivo per i dottori “mobili” sono tuttavia lievemente differenti. Le donne “mobili in Italia”, infatti, arrivano a guadagnare quasi il 16% in più delle colleghe “non mobili” a fronte di un vantaggio dell’11% relativo agli uomini. Specularmente per gli uomini “mobili verso l’estero”, le retribuzioni aumentano di circa il 53% sempre con riferimento ai dottori non mobili geograficamente, mentre per la componente femminile l’aumento è del 50%.
La tipologia familiare, fondamentalmente l’essere in coppia e la presenza di figli, incide in maniera decisamente differente. Per gli uomini essere in coppia (con o senza figli) è un elemento che interviene positivamente sui redditi rispetto agli uomini single o con una partner non convivente; mentre per le donne la monogenitorialità influenza negativamente la determinazione del reddito: essere single con figli comporta una penalizzazione di quasi 40 punti percentuali rispetto sia alle single senza figli sia alle donne in coppia.
A determinare differenze nei redditi di uomini e donne è inoltre il voto di laurea, considerato un segnale dell’eccellenza del percorso formativo. In linea generale, coloro che hanno ottenuto una votazione inferiore al 110 mostrano redditi inferiori; tuttavia per le donne, il voto più basso ha un impatto negativo maggiore.
Dallo studio delle discipline di specializzazione dottorale si rilevano peculiari differenze. Per gli uomini si evidenza una premialità per i dottori in discipline afferenti le scienze giuridiche, le scienze mediche, farmaceutiche e veterinarie rispetto a coloro che hanno concluso studi inerenti le scienze naturali, l’ingegneria, le scienze economiche, ma soprattutto rispetto agli specializzati nelle scienze umanistiche, psicologiche e sociali. Tra le donne la disciplina non sembra avere una particolare influenza sui redditi, ma fanno eccezione le scienze umanistiche, psicologiche e sociali che determinano una decisa riduzione del reddito. Sempre sul fronte delle esperienze formative va notato che solo per le donne aver partecipato al programma Erasmus durante gli studi universitari genera un reddito superiore di quasi il 10%.
Come atteso la tipologia contrattuale ha un peso rilevante nel generare i redditi e mostra effetti dissimili tra uomini e donne. Per le donne, avere un contratto da dipendente a tempo indeterminato permette di aumentare le propria retribuzione di oltre il 16% rispetto al lavoro autonomo, non si evidenziano invece differenze di reddito tra gli uomini dipendenti permanenti e gli autonomi. Lavorare come collaboratore ha un deciso impatto negativo per entrambi i generi, ma la penalizzazione è maggiore per gli uomini (-25,9% rispetto a -17,0% per le donne).
Fig. 2: Stime dei parametri dei modelli di regressione lineare sul log-reddito; dottori di ricerca occupati nel 2012 che hanno percepito un reddito da lavoro nel 2011
Nota metologica: Le variabili inserite nel modello sono le seguenti (tra parentesi le categorie omesse): Condizione di mobilità (Non mobile); Area geografica dell'ateneo del dottorato (Mezzogiorno); Classe di età al 2012 (30-34 anni); Tipologia familiare (Coppia non convivente); Titolo di studio dei genitori (Genitori con al massimo la licenza media); Voto di laurea (voto pari a 110); Disciplina del dottorato (Scienze matematiche, fisiche, chimiche, della terra, biologiche); Tipo di contratto (Lavoratore autonomo); Gruppo professionale (Professione altamente qualificata); Settore di attività economica (Settore terziario).
Fonte: elaborazioni su dati Isfol, Indagine sulla mobilità geografica dei dottori di ricerca, anno 2012
Molti studi hanno mostrato quanto in Italia sia forte il peso all’esperienza lavorativa nel determinare retribuzioni superiori a discapito del titolo di studio posseduto. Questo sembra essere verificato anche per i dottori di ricerca. Gli uomini che hanno iniziato l’attività lavorativa prima del conseguimento del titolo di dottore di ricerca hanno un reddito superiore di oltre 22 punti percentuali; anche per le donne si osserva un vantaggio, tuttavia decisamente inferiore (+9,2%). In tal senso la maggiore premialità legata all’esperienza di lavoro sembra non essere connessa all’investimento in istruzione e sembra delinearsi, soprattutto per gli uomini, una sorta di trade-off tra l’esperienza lavorativa e l’accrescimento del capitale umano.
Va inoltre sottolineato che, soltanto per le donne lo svolgimento di attività di ricerca all’interno del proprio lavoro comporta una crescita del reddito del 9,5% rispetto alle colleghe impiegate in lavori che non riguardano la ricerca.
Infine va considerato l’impatto sulle retribuzioni della tipologia di organizzazione in cui si lavora: mentre per le donne non vi sono differenze tra comparto pubblico e settore privato, per gli uomini l’essere inseriti in una struttura di natura pubblica determina una riduzione del reddito di circa 11 punti percentuali.
Complessivamente le persone con un dottorato di ricerca hanno una posizione di vantaggio sul mercato del lavoro rispetto al resto della popolazione, indipendentemente dal sesso. I dati confermano il ruolo positivo ricoperto dall’istruzione nei confronti dell’occupazione e in particolare di quella femminile. Tuttavia, anche per le persone ad elevato investimento in capitale umano, è stato evidenziato il perdurare di differenziali retributivi, mostrando come nella determinazione dei redditi da lavoro di uomini e donne incidano caratteristiche e variabili molto differenti.
Per concludere, sembra delinearsi un mercato del lavoro duale in cui meccanismi differenti e sostanzialmente alternativi intervengono nella costruzione delle retribuzioni: da una parte il livello retributivo è frutto del riconoscimento delle competenze individuali, dall’altra livelli retributivi più elevati sono associati a posizioni sociali precodificate. Nel primo caso, che sembra caratterizzare l’universo femminile, a premiare in termini reddituali sono le competenze acquisite - partecipando al programma Erasmus durante gli studi o lavorando nell’ambito della ricerca - e a penalizzare sono le posizioni e situazioni di maggiore debolezza, vale a dire aver studiato scienze umanistiche e sociali, generalmente considerate discipline meno spendibili nel mercato del lavoro, avere un voto di laurea inferiore al 110, una professione a media qualificazione o tecniche, un contratto di collaborazione o l’essere single con figli. Nel secondo caso a incidere positivamente sul reddito degli uomini sono i diversi status ascritti o assunti: l’anzianità lavorativa, l’essere capofamiglia, l’aver studiato discipline i cui canali allocativi sono fortemente legati all’appartenenza ad ordini professionali o tradizioni familiari (giurisprudenza, medicina, farmacia). Anche in questo secondo sistema, le condizioni meno favorevoli creano uno svantaggio reddituale, seppur con un’intensità minore rispetto a quanto registrato per le donne. L’unica caratteristica che sembra accomunare i due sistemi è la condizione di mobilità geografica (in Italia o all’estero) che risulta premiante, seppur con intensità e proprietà leggermente diverse, sia per gli uomini che per le donne.
Il riconoscimento di meccanismi differenti nella determinazione del reddito da lavoro di uomini e donne anche fra le persone altamente istruite, che ripropongono in parte le anomalie del mercato del lavoro italiano riscontrabili in generale sulla totalità degli occupati, suscitano non poche perplessità e impongono nuove riflessioni sulla natura e sulla direzione degli interventi tesi a migliorare la qualità dell’occupazione. Gli squilibri riscontrati anche nell’osservazione delle “eccellenze” invitano a pensare che non in Italia ci sia più spazio per interventi dal lato dell’offerta di lavoro e che sia necessario ed urgente sollecitare il dibattito sulle caratteristiche e sulla struttura della domanda di lavoro, nonché sulle azioni e sugli strumenti che potrebbero sostenerla.
[1] L’Indagine sulla Mobilità Geografica dei Dottori di Ricerca è rivolta ad un campione di poco meno di 5.000 individui che nel 2006 hanno conseguito un dottorato di ricerca in un ateneo italiano, anche se di cittadinanza non italiana, e che al momento del conseguimento del titolo avevano un età compera tra i 25 e 49 anni. Per maggiori dettagli si rimanda a Bergamante F., Canal T., Gualtieri G. (2014) http://www.isfol.it/Isfol-appunti/archivio-isfol-appunti/7-aprile-2014-occupazione-e-retribuzione-evidenze-dallindagine-isfol-sulla-mobilita-geografica-dei-dottori-di-ricerca.
[2] Si veda Isfol (2014) “Occupazione e retribuzione: evidenze dall’indagine Isfol sulla mobilità Geografica dei dottori di ricerca”.
[3] In letteratura si osservano molteplici metodologie per la stima del gender pay gap. Si veda al riguardo Zizza R. (2013), The gender pay gap in Italy, Questioni di Economia e Finanza, Occasional Papers, n. 172, Banca d’Italia: http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/econo/quest_ecofin_2/qef172/QEF_172.pdf
[4] A tal fine sono stati implementati due distinti modelli di regressione lineare con l’obiettivo di osservare quali sono gli elementi e i fattori che a parità di altri generano una variazione nei redditi medi dei due collettivi analizzati. I due modelli sono identici nella specificazione e differiscono solo nel collettivo di analisi: il primo modello ha l’obiettivo di stimare l’effetto delle covariate nella determinazione dei redditi per le donne, il secondo ha come unità di analisi gli uomini.
[5] È stata definita una partizione della popolazione che identifica tre specifiche condizioni di mobilità: 1) I dottori di ricerca “non mobili” (coloro che nel 2012 risiedono nella stessa regione dove hanno conseguito il dottorato o nella stessa regione dove hanno vissuto prevalentemente fino a 18 anni); 2) I dottori di ricerca “mobili in Italia” (coloro che nel 2012 hanno un luogo di residenza, nel territorio italiano, che differisce da quello dove hanno conseguito il titolo post universitario e da quello di residenza prevalente sino a 18 anni); 3) I dottori di ricerca “mobili verso l’estero” (coloro che nel 2012 risiedono all’estero). Tramite l’indagine si stima che nel 2012 il 7,5% dei dottori sono “mobili verso l’estero”, il 12,2% sono “mobili in Italia e il restante 80,3% sono “non mobile”.