Dati

42 mila posti di lavoro in meno per le donne: si ingrossa la fila di disoccupate e inattive. Preallarme rosso per l’occupazione femminile, o arresto temporaneo dopo anni di crisi in cui ha tenuto meglio di quella maschile?

Il rosso dell’occupazione femminile
semaforo o preallarme?

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foto Flickr/Ze'ev Barkan

A febbraio di quest’anno le donne hanno perso 42 mila posti di lavoro, andando ad allungare la fila delle disoccupate di 32 mila unità e ‘la riserva’ delle inattive (in età da lavoro) di altre 2 mila. Scenario al rosso.

Tra gli uomini c’è stato poco movimento. Duemila in meno gli occupati, ma anche 9 mila disoccupati in meno, i quali però sono finiti prevalentemente nella riserva, quella degli inattivi. Scenario al grigio.

Se le cifre non sono certo tali da giustificare ottimismo, nessuna di esse ha del clamoroso, poiché nel corso dell’anno variazioni su basi mensili di questo ordine di grandezza non sono eccezionali. Il clamore nasce dall’uso strumentale. Chi brandisce variazioni temporanee di contratti e posti di lavoro come prova di successo di una riforma appena partorita – il Jobs Act – si espone, giustamente, al rischio che ne decretino l’insuccesso cifre altrettanto contingenti dell’andamento dell’occupazione nell’ultimo mese disponibile.

Rimandiamo dunque di qualche trimestre il giudizio sull’impatto occupazionale del Jobs Act e affrontiamo l’altra domanda che queste cifre sollevano. Dobbiamo, cioè, aspettarci che l’occupazione delle donne arretri – in assoluto o in termini relativi – proprio quando l’uscita dal tunnel della crisi sembra più vicina?  

In tutte le crisi del dopoguerra l’occupazione delle donne è stata più ‘vischiosa’ di quella maschile, in Italia cosi come nella maggior parte dei paesi industrializzati. La vischiosità (maggiore resistenza alla crisi) si spiega con la minore esposizione congiunturale di molti dei lavori che fanno le donne – dal comparto del cibo, alla sanità, alla scuola.  In altre parole, la composizione settoriale dell’occupazione femminile (concentrata nei servizi) se da un lato impedisce perdite vistose durante la crisi, dall’altro lato può fare da zavorra nella fase di uscita della crisi.  

Se allunghiamo lo sguardo all’ultimo anno, la tesi della vischiosità si sposa bene con i numeri. Dal febbraio 2014 al febbraio 2015 l’occupazione maschile ha guadagnato 95 mila unità mentre le donne ne hanno perso 2 mila. E i disoccupati maschi sono diminuiti a fronte di una aumento delle disoccupate. Insomma, timidissimi segni di ripresa sul fronte maschile accompagnati da stasi e difficoltà su quello femminile.  

Tiriamo le fila.  42 mila posti di lavoro in meno per le donne in conto ‘vischiosità? A questa domanda si dovrebbe rispondere "non solo".  La caratteristica speciale di questa crisi è che se, da un lato, settori a prevalente occupazione femminile - quale la sanità, la scuola e l’assistenza -  hanno continuato ad essere interessati da una domanda crescente, dall’altro le politiche di austerità (incluso il calo degli occupati nelle amministrazioni pubbliche) e la continua erosione della ricchezza delle famiglie stanno restringendo la disponibilità a pagare per questi beni e servizi. In altri termini, la protezione conferita dalla vischiosità è erosa dal ridimensionamento dello stato sociale e dall’allargarsi del divario fra molte famiglie impoverite e poche sempre più ricche.