Politiche

La Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per aver violato gli obblighi europei nella gestione di un caso di violenza domestica. Servono istituzioni più preparate

Violenza sulle donne, le
istituzioni non sono pronte

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Foto: Flickr/ MadFishDigital

Non sempre “casa” è sinonimo di protezione, i dati parlano chiaro: più spesso è luogo di violenza e sofferenza

In Italia, per prevenire e combattere il fenomeno della violenza domestica, manca ancora un approccio “condiviso” tra tutti gli operatori giuridici e sociali coinvolti nella gestione dei casi.

La sentenza di marzo della prima sezione della Corte di Strasburgo sul tragico caso di una donna moldava di cognome Talpis ce lo dimostra. Lo Stato italiano è stato condannato infatti per non aver adempiuto al suo obbligo di “protezione delle donne vittime di violenza domestica” violando gli articoli 2 (diritto alla vita), 3 (divieto di trattamenti inumani e degradanti) e 14 (divieto di non discriminazione) della Convenzione europea per la salvaguardia dei dritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Cedu).

Le donne finiscono quindi per essere doppiamente vittime, non solo per la violenza subita da compagni, mariti, ed ex, ma anche per la passività delle istituzioni.

Quando si parla di vittimizzazione secondaria si intende proprio una vittimizzazione ripetuta, che si realizza quando la vittima entra in contatto con le autorità nazionali competenti e non viene garantita e tutelata da queste.

Cosa è successo

Una cittadina moldava, residente in Italia dal 2011, ha sostenuto di essere stata vittima, insieme ai figli, di maltrattamenti in famiglia ripetuti nel tempo. La donna ha richiesto l’intervento dei carabinieri, e sostenuto di non essere stata informata della possibilità di presentare una denuncia e di mettersi in contatto con un centro per le donne vittime di violenza. Racconta poi di essersi recata al pronto soccorso per le lesioni dovute alle percosse ricevute dal marito, e che dopo tre ore di attesa ha desistito. Dopo una delle aggressioni, ha trovato rifugio nella cantina di casa. Questo non è servito a evitare una nuova aggressione del marito. Allora la donna ha cercato di chiedere di nuovo aiuto all’esterno, rivolgendosi a una pattuglia di poliziotti che si è limitata a identificarla secondo le procedure e a invitarla a rincasare. Successivamente la donna ha deciso di abbandonare l’abitazione ed è stata accolta da un centro antiviolenza. Tuttavia, per mancanza di fondi, il centro non ha potuto ospitarla per un lungo periodo. La donna è riuscita in seguito a sporgere denuncia nei confronti del marito, ma le sue dichiarazioni sono state modificate in un secondo momento, con un’attenuazione della gravità dei fatti. Il pubblico ministero ha deciso allora di archiviare le indagini per il reato di maltrattamenti perché lo svolgimento dei fatti risultava incerto. Nella notte del 25 novembre 2013 la donna si è trovata a chiedere invano l’ennesimo intervento dei carabinieri a causa di una nuova lite con il marito, che ha poi ferito la donna e ucciso il figlio che aveva provato a proteggerla. La donna ha denunciato di sentirsi vittima non solo del marito ma delle stesse forze dell’ordine e della loro inefficienza.

La sentenza di Strasburgo 

Secondo la Corte di Strasburgo, che ha accolto il ricorso della donna, le autorità italiane hanno effettivamente dimostrato di non essere state diligenti e di essersi sottratte all’obbligo positivo di proteggere la vita della donna e di suo figlio con palese violazione dell’art. 2 della Cedu. 

La Corte, inoltre, insiste sull’assenza di diligence dello Stato italiano, anche in relazione al trattamento delle denunce per violenza domestica. I giudici europei richiamano la Convenzione di Istanbul, che impone agli Stati membri di adottare le misure legislative e di altro tipo necessarie per garantire che le indagini e i procedimenti penali relativi a tutte le forme di violenza che rientrano nel campo di applicazione della Convenzione siano avviati senza indugio ingiustificato, prendendo in considerazione i diritti della vittima in tutte le fasi del procedimento penale. Pertanto la Corte ha ritenuto che, anche nel trattamento giudiziario del contenzioso delle violenze contro le donne, i giudici italiani non  abbiano saputo gestire il procedimento penale correttamente risultando passivi e che in questo modo non sono state soddisfatte le esigenze espresse dall’art. 3 della Cedu.

Infine, anche l’art. 14 della Cedu è stato violato in combinato disposto con gli art. 2 e 3: le omissioni della autorità italiane hanno discriminato la vittima in quanto donna violando il divieto di discriminazione.        

Il risarcimento a cui è stata condannata l’Italia per il danno morale subito dalla vittima è di 30mila euro.

La speranza è che a seguito di questa sentenza di condanna lo Stato italiano decida finalmente di fare qualcosa in più per le donne vittime di violenza domestica. 

In primis, occorre predisporre una adeguata “formazione di genere” per tutti gli operatori coinvolti.

Photo credits: MadFishDigital