Politiche

Il rapporto Istat 2015 fornisce, tra i vari dati, una panoramica di quanto e dove le imprese usano misure di flessibilità e conciliazione. Cambiamenti in corso e prospettive future

Conciliazione e welfare aziendale
in Italia luci e ombre

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foto Flickr/yoshiyasu nishikawa

Nel nuovo rapporto ISTAT sulla situazione del Paese, che presentiamo in generale qui, il tema della“conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro” compare per la prima volta a pagina 161 laddove si parla di “Qualità del lavoro”. Il tema è chiamato in causa per spiegare come l’incremento del part time sia per lo più legato a part time involontario, ovvero scelto dalle imprese per far fronte alla crisi (una scelta organizzativa) e non dalle famiglie per gestire i carichi extra-lavorativi e, in particolare, le responsabilità di cura (una scelta che sarebbe individuale). Il tema riappare a pagina 162, con la stessa funzione (il part-time non è da leggersi come funzionale alla conciliazione, visto che interessa spesso orari di lavoro 'anti-sociali': la sera, la notte, il fine settimana).

Lo ritroviamo poi, per una trattazione più estesa, nelle tre pagine che il rapporto dedica a Pratiche di welfare aziendale e Corporate Social Responsibility (paragrafo 4.1.4)In questa sezione scopriamo che “tra i benefit che le imprese offrono ai dipendenti rientrano le iniziative di welfare aziendale che – recando vantaggi non solo ai dipendenti e alle loro famiglia ma più in generale al territorio dove opera l’azienda – affiancano il welfare locale”. Tra queste misure rientrano: “offrire servizi aggiuntivi quali asili nido, servizi sociali, di assistenza, ricreativi e di sostegno” e “flessibilizzare l’orario di lavoro e favorire la conciliazione dei dipendenti”. I dati, risultanti dall’elaborazione delle informazioni ricavate da una sezione ad hoc, inserita nel mese di febbraio 2015 all’interno della Rilevazione mensile sul clima di fiducia delle imprese manifatturiere, dei servi di mercato e del commercio al dettaglio, mostrano che la tipologia di misure che interessano aspetti di work life balance non sono tra quelle maggiormente scelte dalle imprese.

Solo il 4,2% delle imprese nel settore del commercio – dove sappiamo esistere una forte presenza di occupazione femminile, laddove a tutt’oggi le donne sono investite in maniera preponderante dalle responsabilità di cura – dichiara di offrire servizi aggiuntivi; tale percentuale sale al 17,6% per le imprese del settore manifatturiero, per arrivare al 30,7% (meno di un terzo delle imprese sul territorio nazionale) per il settore dei servizi. Va meglio per le misure di flessibilità oraria che in generale richiedono all’impresa un minor investimento (in alcuni casi consentono addirittura un risparmio, quando si traducano in misure compensative delle ore di lavoro – tipo banche delle ore – che consentono flessibilità e recuperi contemporaneamente riducendo il ricorso allo straordinario) e comunque rispondono anche a esigenze organizzative delle imprese. Troviamo, infatti, che il 24,2% delle imprese nel commercio dichiara di offrire tale possibilità ai dipendenti e alle dipendenti, percentuale che sale a 36,2% per il settore manifatturiero e al 50,5% per i servizi.

Va notato che la tipologia dell’indagine, e la natura qualitativa dei quesiti, consente di rilevare “la percentuale di imprese che dichiarano di utilizzare determinate pratiche ma non quanta parte dei dipendenti risulta effettivamente coinvolta”. Va anche notato che le misure di "welfare o responsabilità sociale d’impresa" maggiormente diffuse sono quelle per le quali esistono norme di legge cogenti o incentivi che ne favoriscano l’introduzione: la formazione per i dipendenti (finanziabile mediante il ricorso ai fondi interprofessionali o a incentivi mirati provenienti dai fondi europei) e la tutela e sicurezza dei luoghi di lavoro e della salute dei dipendenti (incentivi INAIL per progetti alle imprese).

In questo senso, per aumentare l’adozione di misure di work life balance sarebbe necessario estendere con ulteriori finanziamenti la capacità di impatto di misure sperimentali quali il Family Audit  o riproporre i finanziamenti ex art 9 legge 53/2000 che negli anni di funzionamento hanno promosso interessanti esperienze nelle imprese sul territorio nazionale.

Se guardiamo poi alla distribuzione per macro aree territoriali delle imprese che dichiarano di adottare tali misure, troviamo uno scenario che vede attività prevalenti al centro-nord, con alcune differenziazioni per tipologia di imprese legate anche alle caratteristiche produttive dei territori - e carenti, soprattutto per quanto riguarda le misure relative ai servizi aggiuntivial sud, in territori in cui, invece, si registra una storica carenza di servizi e il welfare integrativo aziendale potrebbe davvero fare la differenza. Colpisce, ad esempio, il dato relativo ai servizi aggiuntivi offerti dalle imprese del commercio: a fronte di un 8,5% di imprese che li offrono nelle aree del nord-ovest e di un 2,1% nelle aree del nord-est, troviamo valori percentuali pari a 0,5% al centro e pari al 2,4% al sud. Questa tipologia di servizi risulta maggiormente offerta dalle imprese nel settore dei servizi al centro, con una copertura pari al 56,4% del totale delle imprese coinvolte.

In conclusione, se si incrociano i dati relativi al welfare aziendale con i dati relativi all’occupazione femminile si nota, ancora una volta, come un maggior investimento di risorse pubbliche e private in “servizi di conciliazione”  favorirebbe una maggiore partecipazione al mercato del lavoro soprattutto, ma non solo, delle donne più libere da oneri di cura (delle persone, della casa, del contesto sociale) e consentirebbe la creazione di opportunità di lavoro in molti settori, tra cui quelli delle professioni definite “elementari” in cui è prevalente l’occupazione femminile. Ma non si tratterebbe soltanto di questo. Si tratterebbe anche di favorire un approccio innovativo alla gestione d’impresa, promuovere l’ideazione e la messa a regime di servizi di gestione dei tempi e dei servizi che utilizzino in modo smart tecnologie e comunicazione, di favorire l’attivazione di reti che nascono anche da un modo diverso di pensare il lavoro ed i suoi tempi, e di portare nei territori, e soprattutto al sud, un contributo femminile e innovativo a quella spinta creativa che caratterizza le aree del paese in cui nascono 'germogli'.