Dati

Serve una nuova politica per la famiglia, ma per guardare al futuro bisogna capire di cosa parliamo quando diciamo "famiglia"

Da ricordare quando
si parla di denatalità

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Foto di Ketut Subiyanto da Pexels

404mila nati in Italia nel 2020, il 30 per cento in meno rispetto al 2008. È il numero che tutti ma proprio tutti i giornali hanno riportato, riferendo degli Stati generali della natalità che si sono tenuti due giorni fa a Roma a due passi dal Vaticano. La conclusione anche è unanime: serve una nuova politica per la famiglia. Peccato che non ci si preoccupi, ancora una volta, di chiarire di che tipo di famiglia parliamo e che ruolo in questa devono avere le donne.

Non è una discussione solo di principio perché l’idea della famiglia che vogliamo per il nostro paese sarà alla base della riforma dell’IRPEF e delle misure per l’assegno unico e universale per i figli che sono in corso di elaborazione in questi mesi, nonché del piano per le strutture per l’infanzia previste dal PNRR. A seconda di come questi provvedimenti saranno declinati,  possiamo realizzare  un passo avanti importante verso un welfare più inclusivo ed efficiente e  nella strada dell’indipendenza economica delle donne e della parità di genere.  

Oppure possiamo ribadire il tradizionale modello italiano di welfare, basato sulla famiglia a cui si concedono trasferimenti monetari e sgravi fiscali ma si lascia l’intero fardello della cura di bambini e anziani, con un forte scoraggiamento al lavoro femminile. Dato che al tema delle politiche per la famiglia hanno dato tanto risalto due anziani signori, il capo della Chiesa Cattolica che è tuttora il regno dell’incontrastato potere maschile, e il primo ministro dello Stato italiano di solida ancorché illuminata  educazione gesuitica , qualche timore lo possiamo avere.

È utile forse allora ricordare che nei paesi ricchi e avanzati, come il nostro, i figli sono più numerosi dove si è affermato un modello di welfare diverso che predilige la famiglia paritaria con due redditi e una marcata condivisione del lavoro di cura all’interno della coppia, favorita da generosi congedi parentali per padri e madri e appoggiata da una solida rete di infrastrutture sociali. Tutti e tre gli ingredienti servono: un lavoro retribuito per entrambi i genitori, l’assunzione da parte degli uomini della loro porzione del lavoro di cura dei figli e della casa, servizi sociali accessibili e di buona qualità. A riprova di questo non è necessario scomodare i soliti paesi del Nord Europa.

Basta il confronto con la vicina – in molti sensi  Francia che vanta 300mila bambini più di noi ogni anno, come da più parti è stato messo in evidenza dalla stampa nazionale senza però sottolineare che il tasso di occupazione femminile della Francia per la popolazione 20-64 anni è di 15 punti più alto del nostro. E che la migliore politica per la natalità è oggi dare alle giovani donne un lavoro sicuro, cosa che sono ben lontane dall’ottenere, più istruite dei loro coetanei, più precarie dei loro coetanei, più disoccupate dei loro coetanei.

È nella speranza di un lavoro stabile e  decente che le giovani donne rimandano di fare figli continuando a spostare in avanti l’età media al parto che nel 2020 è arrivata   a 32,2 anni,[1] un’età pericolosamente vicina a quella che segna un declino della fertilità, quando i figli, anche se li si desiderano, possono non venire più. Tra i molti motivi per cui è necessario aumentare l’occupazione femminile e che abbiamo tante volte ricordato, fa più fatica ad entrare nel senso comune il suo profondo  legame con la natalità.

La seconda cosa che è bene ricordare, di cui invece non ha parlato nessuno, è che di questi 404mila nati nel 2020 60mila hanno genitori stranieri. Vivono in un’Italia che li considera residenti di serie B, lasciandoli privi di  cittadinanza, e che non sembra preoccuparsi di cosa diventeranno nel nostro paese. Eppure la realtà che conosciamo manda segnali inquietanti: sappiamo che frequentano poco gli asili nido, anche se  non abbiamo dati esatti perché il pur dettagliatissimo rapporto ISTAT del 2020 su “Nidi e servizi educativi per l’infanzia” non ne fa nemmeno menzione.

Anche nella scuola dell’infanzia sono leggermente sottorappresentati, perdendo così anni cruciali per la formazione e l’integrazione sociale per chi proviene da ambienti svantaggiati e non ha l’italiano come lingua madre. Hanno tassi di abbandono scolastico più alti, raramente arrivano all’istruzione terziaria. Nel momento in cui finalmente sembra che nuove risorse siano riversate su scuola e istruzione a partire dalle età più giovani, sarebbe il caso di dedicare un’attenzione speciale a questo problema, magari legando anche alla frequentazione di asili e scuole per l’infanzia la possibilità di ottenere la cittadinanza.

Se non vogliamo farlo per senso di giustizia, facciamolo per egoismo pensando alle negative esperienze di paesi con immigrazioni più antiche e i disastri che la mancata integrazione sociale ha creato. Va bene piangere i bambini che non ci sono, ma intanto  occupiamoci di far crescere bene quelli che ci sono già. 


Note

[1] Istat, Indicatori Demografici 2020