Opinioni

Il personale è politico, anche la scelta di fare o non fare figli lo è. Nove punti per nutrire un dibattito femminista su aumento della popolazione globale, accesso alla salute e libertà riproduttiva. Perché la maternità dovrebbe essere una scelta, non un destino

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Unfpa 2023
Credits Unfpa 2023

Siamo troppi o troppo pochi? Nel 2022, per la prima volta dall'unità d'Italia, le nascite sono scese sotto la soglia delle 400mila unità, attestandosi a 393mila. Siamo sestultimi nel mondo per tasso di natalità. Eppure, se guardiamo ai dati mondiali l’umanità non rischia di finire per via della diminuzione delle nascite. Siamo fin troppi sulla terra. E continueremo a crescere almeno fino al 2100. La questione a livello globale sembra piuttosto la sostenibilità ambientale di questo continuo aumento della nostra presenza. Il dibattito intorno alla denatalità si è fatto sempre più acceso, in Italia come in altri paesi, non solo perché cala il numero dei nuovi nati, ma anche perché il tema si intreccia con le posizioni dei partiti di destra a favore della famiglia “tradizionale” e contro l’immigrazione, mentre i nuovi movimenti ambientalisti suonano l’allarme per il pianeta.

Abbiamo un problema?

Naturalmente, la questione demografica si declina in modo diverso a seconda della latitudine del mondo in cui ci troviamo. Il fantasma dell’estinzione si aggira nell’Occidente perché qui la natalità decresce. Il vecchio continente diventa sempre più vecchio.

I paesi che hanno vissuto prima e con più decisione il calo della fecondità dagli anni Settanta in poi sono stati i paesi più ricchi e sviluppati. Oggi, però, i tassi di fecondità sono "positivamente correlati allo sviluppo economico, al reddito, al livello di occupazione femminile e all’uguaglianza di genere". E noi, l’Italia, siamo i penultimi in Europa per il tasso di occupazione femminile, siamo il paese che scarica sulle donne la gran parte del lavoro di cura. Le donne, dunque, non fanno più figli. Per certi versi è la protesta silenziosa delle donne contro lo stato di cose presente. Anche se questa è solo una parte della storia.

Il modo in cui questi dati sulla denatalità sono trasformati in problema politico varia moltissimo in base ai posizionamenti, agli orientamenti valoriali e alle culture di riferimento dei diversi interlocutori. L’allarme sulla situazione della popolazione sembra suonare per tutti, ma quali siano le ragioni d’allarme è questione di punti di vista.

I timori possono riguardare la carenza di forza lavoro e di innovatività del sistema impresa, la tenuta del sistema fiscale e contributivo. O il declino di un modello di vita familiare tradizionale, le fantasie di estinzione e “sostituzione” del popolo inteso come “ethnos”.

Che fare, allora? C’è chi punta sull’immigrazione per ripopolare le nostre lande. E chi, invece, come la destra al governo, si aggrappa a ideologie etno-nazionaliste. Si fa forte la tentazione di riportare le donne al loro posto, di ristabilire l’ordine “naturale” della famiglia eterosessuale e patriarcale, promuovendo tra l’altro un solo modello di famiglia come quello legittimato a riprodursi.

Abbiamo visto all’opera questa ingiunzione nella messa in discussione della possibilità dei comuni di registrare gli atti di nascita dei figli delle coppie omogenitoriali e nel parere negativo dato dalla maggioranza di centro destra al regolamento europeo che riconosce lo status di filiazione in un paese membro alle bambine e ai bambini che lo vedono riconosciuto nel loro stato. Di questa strategia fa parte anche la colpevolizzazione da parte delle destre e dei movimenti prolife dell’aborto legale come fattore di accelerazione del declino demografico.

A rischio è il percorso di liberazione inaugurato dal femminismo nel corso del novecento, l’autonomia e la libera soggettività conquistate nell’arco di decenni.

Una mutazione antropologica

Nell’ultimo secolo le donne sono cambiate, e hanno provocato un cambiamento in molti uomini. Certo non è facile capire dove si può tracciare la linea di distinzione tra la scelta consapevole di non avere figli, di sovvertire quel destino di madri che ha imbrigliato le biografie femminili per millenni, e la rinuncia imposta o indotta dalle condizioni economiche, politiche e sociali in cui viviamo.

In un orizzonte di crescita costante delle diseguaglianze, anche la possibilità di avere figli, soprattutto di averne quanti se ne desiderano, è diventata privilegio delle fasce più abbienti, di donne con un lavoro stabile e ben retribuito, di famiglie che possono pagare di tasca propria i servizi di cura. Visto che In Italia una donna su quattro perde il lavoro con l’arrivo del primo figlio e che i nidi sono in molti contesti territoriali un miraggio.

Eppure non basta l’economia a spiegare il calo demografico e le scelte riproduttive di donne e uomini, e la soluzione ai desideri inappagati di genitorialità non può essere solo economica.

Avere figli è una questione (anche) politica. Cosa significa? Che è una scelta che riguarda le persone singole ma attiene anche alla dimensione comune del vivere insieme, al modello di società che si costruisce e alla sua percezione del futuro. In questo senso, non è soltanto una questione di politiche di sostegno alla genitorialità, ma implica una visione politica di trasformazione del presente.

Generare mondo comune

Noi crediamo ci sia motivo di preoccupazione in questo scenario di bassa fecondità. Non, però, come vorrebbe la destra “nativista”, perché il mondo occidentale perda centralità o si indebolisca una presunta stirpe italiana o europea. Né solo perché il declino delle nascite determini un problema di tenuta dell’economia e del welfare, o perché produca uno scarto tra figli desiderati e figli avuti, quindi per un problema di desideri individuali inappagati – preoccupazioni, queste ultime, giuste e già care al fronte progressista.

La denatalità potrebbe essere la spia dell’esaurirsi della capacità di investimento temporale e di cura e relazione tra le persone. In questo il nesso con la capacità di affrontare la crisi climatica è strettissimo. Non stiamo parlando delle singole scelte di genitorialità, pensiamo piuttosto al modo di essere delle nostre società, ai legami che strutturano il mondo in cui viviamo. Diventare genitori, procreando naturalmente oppure grazie alle tecnologie, o adottando, o prendendosi cura di figli altrui, è una scelta che eccede la logica costi/benefici.

Di contro, la diminuzione delle nascite – superato il calo “fisiologico” dovuto al diffondersi della contraccezione e alla liberazione delle donne dal destino imposto – può significare l’adattamento a società con un orizzonte immaginativo ristretto, poco investimento sul cambiamento, perdita di legame tra generazioni.

Nove punti

Se allora guardiamo alla questione demografica attraverso la lente della libertà delle donne emergono alcune questioni che ci sembrano cruciali. E che possono rappresentare l’avvio di una discussione femminista sul tema, orientata da un’idea complessa e multidimensionale di giustizia: giustizia di genere, sociale, globale, climatica.

Proponiamo nove punti, per prendere sul serio il cosiddetto allarme demografico, vedendo però anche i limiti delle risposte politiche alternative che a questo vengono date.

Uno: la maternità è una scelta, non un destino. Nessuna discussione sulla denatalità deve rappresentare un arretramento rispetto al cambiamento portato nelle vita di donne (e uomini) dal femminismo, dal grande mutamento nei costumi riproduttivi, dalla maternità come scelta, dalla separazione tra sessualità e maternità.

Due: l’aborto legale non c’entra. La retorica antiabortista accusa la legge 194 del 1978 di aver causato 6 milioni di non nati contribuendo al declino demografico. Ma non è la legge ad aver introdotto l’aborto, che è sempre esistito, praticato nell’illegalità. Negli ultimi quarant’anni, al contrario, le interruzioni di gravidanza hanno continuato a diminuire.

Tre: l’immigrazione è un fenomeno strutturale, che – tra altri benefici – tiene in equilibrio la bilancia demografica. Non “sostituisce” nulla, perché non c’è nessun “popolo” italiano, inteso come “ethnos”, da sostituire.

Quattro: nel mondo non c’è nessun declino demografico. Se alziamo lo sguardo oltre il nostro continente, la popolazione del pianeta continua e continuerà a crescere in alcuni paesi asiatici e africani. Concentrarsi solo sull’Italia, l’Europa, il mondo occidentale significa immaginare un mondo chiuso, preoccuparsi dei “nostri” figli e ignorare i figli degli altri.

Cinque: diventare genitori non può essere un lusso. Perciò bisogna combattere le disuguaglianze sociali e di genere. Le persone fanno più figli dove c’è più occupazione femminile, parità di genere, condivisione del lavoro di cura e servizi per l’infanzia.

Sei: nessuna misura di welfare pro-natalista sciovinista e autoritaria, non importa quanto ammantata di retorica del “bene delle donne”, è accettabile in prospettiva femminista.

Sette: tutti i bambini sono uguali e vanno riconosciute tutte le famiglie. Le famiglie sono tante – omogenitoriali, monogenitoriali, allargate, ecc. – e non può esserci gerarchia tra bambini venuti al mondo in modo diverso.

Otto: avere figli non significa solo fare figli. La genitorialità e il prendersi cura non sono solo legate ai rapporti di consanguineità e non dipendono solo dall’aver vissuto la gestazione e il parto. Il tema riguarda anche gli uomini, ed esperienze di adozione, affido, e volontariato in favore di minori sono forme di cura che esigono rispetto e riconoscimento.

Nove: non avere figli è (anche) libertà. Vanno rispettate tutte le scelte delle donne. L’identità femminile non è riducibile all’essere madre. Anche questo ce l’ha insegnato il femminismo.

Torniamo così dove eravamo partire, alla libertà delle donne, senza tener conto della quale pensiamo che qualunque politica demografica sia destinata al fallimento. Al contrario, le libere scelte, i percorsi di liberazione femminile nel pianeta, possono aiutarci a restituire al mondo cura, desiderio, creazione e futuro. 

Una versione estesa di questo articolo è uscita su Politica, il mensile del quotidiano Domani, numero di Maggio 2023.